La
coscienza di un godimento estetico e la sua espressione in parole non
si sono sviluppate che tardi. L’uomo del secolo quindicesimo disponeva,
per esprimere la sua ammirazione davanti alle opere d’arte, di termini
che ci attenderemmo da un borghese stupefatto. La nozione stessa della
bellezza artistica gli è ancora sconosciuta. Se la bellezza dell’arte lo
riempie di luce e di commozione, egli converte immediatamente tale
sentimento in un senso di comunione con Dio o in gioia di vivere.
Dionigi il Certosino ha scritto un trattato “De venustate mundi et pulchritudine Dei”.
Dunque già nel titolo la vera bellezza è attribuita soltanto a Dio; il
mondo può esser soltanto venustus, grazioso, leggiadro. Tutte le
bellezze del creato, dice egli, sono soltanto rivoletti della bellezza
suprema; una creatura è chiamata bella in quanto partecipa della
bellezza della natura divina e quindi le diventa in certa misura simile.
Questa estetica larga e sublime, per la quale Dionigi poggiava sullo
Pseudo-Areopagita, su S. Agostino, Ugo da San Vittore e Alessandro di
Hales, avrebbe dovuto servire di base per l’analisi d’ogni bellezza. Ma
mancavano ancora al secolo quindicesimo le forze necessarie a tale
scopo. Dionigi prende dai suoi predecessori persino gli esempi di
bellezza terrena, una foglia, il mare dal colore cangiante, il mare
irrequieto, e segue specialmente i due acuti Vittorini del secolo
dodicesimo: Riccardo ed Ugo. Se si propone di analizzare da sé la
bellezza, rimane alla superficie. Le erbe son belle perché son verdi, le
pietre preziose perché luccicano, il corpo umano, il dromedario ed il
cammello perché son conformi allo scopo. La terra è bella perché è lunga
e larga, i corpi celesti perché sono rotondi. e chiari. Delle montagne
ammiriamo la grandezza, dei fiumi la lunghezza, dei campi e dei boschi
l’estensione, della terra stessa la massa smisurata. Il pensiero
medioevale riconduce sempre la nozione di bellezza a idee di perfezione,
di proporzione e di splendore. Nam ad pulchritudinem, – dice S. Tommaso d’Aquino – tria
requiruntur. Primo quidem integritas sive perfectio: quae enim diminuta
sunt, hoc ipso turpia sunt. Et debita proportio sive consonantia. Et
iterum claritas: unde quae habent colorem nitidum, pulchra esse dicuntur.
Anche Dionigi cerca d’applicare unità di misura di tal fatta. Ma il
risultato è sempre disgraziato: l’estetica applicata è sempre una cosa
imbarazzante. Non è da stupirsi che, con una nozione di bellezza così
intellettualistica, lo spirito non possa indugiare sulla bellezza
terrena quando vuol descrivere il bello, Dionigi devia subito verso la
bellezza invisibile: quella degli angeli e dell’empireo. Oppure la cerca
nelle cose astratte: la bellezza della vita è lo stesso cammino della
vita secondo i dettami della legge divina, scevro dalla bruttura del
peccato. Della bellezza dell’arte non parla, e neppure di quella della
musica, che più d’ogni altra avrebbe dovuto colpirlo come un valore
estetico a sé . Questo stesso Dionigi, entrato un giorno nella chiesa di
San Giovanni a Bosco Ducale, mentre suonava l’organo, fu a un tratto
rapito dalla dolce melodia in un’estasi prolungata. L’emozione artistica
si trasformò immediatamente in esperienza religiosa. Non gli sarà
nemmeno passata per la mente l’idea che nella bellezza della musica o
dell’arte figurativa egli potesse ammirare qualcosa di diverso dal
divino.
Dionigi
fu tra coloro che disapprovarono l’introduzione della musica moderna,
polifonica, nella chiesa. La voce rotta (“fractio votis”), così scrive
seguendo un autore più antico, sembra il sintomo di un’anima spezzata:
la si può comparare ai capelli arricciati in un uomo o a un vestito
pieghettato in una donna: non è altro che vanità. Alcuni che avevano
partecipato a quel canto a più voci gli avevano confidato che vi erano
in esso un certo orgoglio e una lascivia animi. Egli riconosce che vi
sono dei devoti che dalle melodie vengono intensamente stimolati alla
contemplazione e alla devozione, ed è per ciò che la Chiesa tollera gli
organi. Ma quando la musica artistica serve a dilettare l’udito e a dar
piacere ai presenti, soprattutto alle donne, essa va scartata
senz’altro. Si vede come lo spirito medioevale, nel descrivere la natura
dell’emozione musicale, non trovi ancora altri termini, che non siano
quelli indicanti sentimenti peccaminosi: l’orgoglio e una certa lascivia
dell’animo. Si scrisse continuamente sull’estetica musicale. E di
regola si continuava a fondarsi sulle teorie musicali, da tempo non più
comprese, dell’antichità classica. Ma sul modo in cui la bellezza
musicale era realmente sentita, quei trattati non ci dicono in fondo
molto. Quando si tratta d’esprimere che cosa si trova veramente di bello
nella musica, ci si limita a termini generici, che sono affini a quelli
adoperati per esprimere l’ammirazione destata dalla pittura. Ora vi si
ammira la gioia celestiale, che si prova nella musica, ora l’eccellente
imitazione. Tutto contribuiva a far apparire l’emozione musicale affine
alla beatitudine celeste; non si trattava qui, come nella pittura, di
una riproduzione di cose sacre, bensì di un’eco della stessa gioia del
paradiso.
Quando
il bravo Molinet, che evidentemente amava molto la musica, racconta come
Carlo il Temerario, anche lui grande amatore di musica, passasse il
tempo nel campo davanti a Neuss con la letteratura e specialmente con la
musica, la sua anima di retorico esulta: car musique est la
résonnance des cieux, la voix des anges, la joie de paradis, l’espoir de
l’air, l’orgne de l’Eglise, le chant des oyselets, la récréacion de
tous cueurs tristes et désolés, la persécution et enchassement des
diables (t 135). Ci si rendeva, naturalmente, conto dell’elemento
estatico che si nasconde nella sensazione musicale. La forza delle
armonie, di Pierre d’Ailly, attira talmente l’anima umana a sé, da
sottrarla non solo alle altre passioni e preoccupazioni, ma da
sollevarla addirittura sopra se stessa. (…)