“Virtualmente io trovo
nella religione cristiana ogni tendenza a quanto c’é di più sublime e nobile;
quanto alle differenti forme che essa assume nella vita, mi sembrano così
repellenti e di cattivo gusto solo perché non costituiscono se non erronee
rappresentazioni di ciò che in essa é sublime.” (Schiller a Goethe)
Si
potrebbe dire che, là dove la religione diviene artificiosa, sia
riservato all’arte di salvarne il nucleo sostanziale, penetrandone i
simboli mitici che questa pretende che vengano creduti come veri nel
senso letterale del termine secondo i loro valori simbolici, onde
riconoscere attraverso la loro ideale rappresentazione la reale verità
che in essi si nasconde. Mentre per il sacerdote é importante che le
allegorie religiose vengano considerate verità di fatto, ciò non importa
in alcun modo all’ artista, che senza ambagi presenta liberamente la
propria opera come sua invenzione. Senonché la religione sopravvive
soltanto come artificio quando si trova nella necessità di sviluppare
sempre più i suoi simboli dogmatici, coprendo con ciò l’Uno, il Vero e
il Divino che vive in lei con un cumulo sempre crescente di elementi in
sé incredibili che si raccomandano solo alla fede. Avvertendo ciò, essa
ha creato da sempre l’ausilio dell’arte, che rimase incapace di più alto
sviluppo fintanto che si limitò a proporre alla devozione dei sensi
quelle pretese verità reali dei simboli, producendo soltanto delle
immagini idolatriche di feticci, mentre adempì al suo vero compito,
quando, mediante la rappresentazione ideale dell’immagine simbolica,
contribuì alla comprensione della sua intima sostanza, cioè della verità
divina inesprimibile. Per veder chiaro in ciò, bisognerebbe indagare
molto accuratamente il modo onde sorsero le religioni. Certamente esse
dovrebbero apparirci tanto più divine, quanto più la loro intima
sostanza è semplice. La base più profonda di ogni vera religione la si
riconosce in realtà nella coscienza che essa ha della caducità del
mondo, e nella misura in cui da questa consapevolezza possa trarsi un
impulso liberatore. Bisogna riconoscere, certamente, che in ogni tempo
fu necessario uno sforzo sovrumano per riuscire a rivelare al popolo,
all’uomo irretito quella natura, questa conoscenza liberatrice, e che
pertanto l’opera di maggior successo del fondatore di una religione
consisté sempre nell’invenzione di quelle mitiche allegorie, dalle quali
il popolo, attraverso la fede, poteva essere indotto a seguire
realmente l’insegnamento fondamentale. A questo proposito è il caso di
considerare come una caratteristica sublime della religione cristiana il
fatto che la verità più profonda venne da essa apertamente e
determinatamente destinata al conforto e alla salute dei poveri in ispirito, la dove l’insegnamento dei brahmani era destinato soltanto a coloro che seguivano le vie della conoscenza, per modo che i ricchi in ispirito
considerarono la massa umana, irretita nella naturalità, come esclusa
dalla possibilità della conoscenza e capace di giungere alla coscienza
della nullità del mondo soltanto attraverso innumerevoli rinascite. Che
esistesse una via più breve per pervenire alla salvezza mostrò ai poveri
anche l’Illuminato, il Risvegliato: senonché il sublime esempio della
rinuncia e della imperturbabile mitezza del Budda non parve sufficiente
ai suoi seguaci; l’ultimo grande insegnamento, quello dell’unita di
tutti i viventi, non poteva in realtà divenire accessibile ai discepoli
se non attraverso una mitica spiegazione del mondo, la cui ricchezza di
simboli e ampiezza di allegorie era ripresa dalle basi metafisiche della
dottrina brahmana e dalla sua sorprendente ricchezza e fecondità
spirituale. Né a questo punto sarebbe giunta mai, col raffigurare i miti
e le allegorie, l’arte vera e propria; tale ufficio fu assunto dalla
filosofia, che accompagnò con le sue elaborazioni raffinate il
costituirsi dei dogmi religiosi. Altra cosa accadde invece nella
religione cristiana. Il suo fondatore non fu un saggio, ma un essere
divino; la sua dottrina consisté nella volontà del dolore: credere in
lui significò imitarlo, e sperare nella salvezza volle dire
semplicemente congiungersi fa lui. Ai poveri in ispirito non fu
necessario possedere una spiegazione metafisica del mondo; la
consapevolezza del loro dolore era immediatamente presente alla loro
sensibilità, e l’unica cosa che fu chiesta loro dal divino fondatore fu
che essi non chiudessero i loro cuori a tale consapevolezza. E’ chiaro
che, se la fede in Gesù fosse rimasta patrimonio dei poveri, il dogma cristiano sarebbe giunto a noi come la più semplice delle religioni; senonché era una cosa troppo semplice per i ricchi,
e tutte le confusioni incredibili prodotte dallo spirito delle sètte
nei primi tre secoli di vita del cristianesimo non furono che lotte
senza fine, intraprese dai ricchi in ispirito per far propria la fede
dei poveri in ispirito, deviando e distorcendo la reale sostanza delle
cose con la violenza dei concetti. La Chiesa si decise infine a
rifiutare l’elaborazione filosofica degli articoli di una fede destinata
all’ accoglimento supino del sentimento; senonché ciò che avrebbe
dovuto conferire ad essi, in virtù della loro origine, una dignità
sovrumana, fini per torlo in prestito dai risultati delle competizioni
delle sètte, traendo da essi tutta quella complicata massa di miti, per i
quali finì col pretendete fede incondizionata, con spietato rigore,
come se si fosse trattato di verità di fatto. Per giudicare la fede nei
miracoli la via migliore é quella di prendere in considerazione il
mutamento che si pretende da l’uomo naturale, che in primo luogo
considera il mondo e le sue manifestazioni come l’unica cosa veramente
reale; perché appunto si esige in questo caso che egli al contrario
riconosca il mondo come pura apparenza e come nulla, cercando la vera e
propria verità al di fuori di esso. Se per vanto si definisce miracolo
un processo, in virtù del quale si sospendono le leggi della natura, e
dopo più matura riflessione ci si accorge che queste leggi sono in
realtà fondate solo nella nostra attività rappresentativa, e legate
indissolubilmente alle nostre funzioni cerebrali, la fede nel miracolo
diventa chiaramente un corollario quasi necessario del capovolgimento
che si opera nella volontà di vita contro le pretese della natura. Il
più grande miracolo è in ogni caso per l’uomo naturale questo
capovolgimento della volontà, nel quale si contiene già la sospensione
delle leggi di natura; mentre ciò che produce tale conversione deve
necessariamente essere ben al di sopra della natura e possedere potenza
sovrumana, se la riunione con esso è l’unica cosa desiderabile e degna
di essere perseguita. Ai suoi poveri Gesù significò questo mondo diverso
chiamandolo Regno di Dio, e contrapponendolo al regno di questo mondo;
colui che chiamava a sé gli stanchi e gli oppressi, i sofferenti e i
perseguitati, i pazienti e i miri, quelli che amavano i loro nemici e
l’universo intero, era il loro Padre celeste, ed egli era il Figlio inviato ad essi, suoi fratelli. Qui è da scorgere il più grande dei miracoli, e lo chiamiamo perciò Rivelazione. (…)
Ciò che
in generale intendiamo per efficacia artistica è sostanzialmente
l’elaborazione dell’immagine; l’arte cioè intuisce l’immagine del
concetto, nella quale quest’ultimo si manifesta esteriormente alla
fantasia; e lo solleva, mediante l’elaborazione delle allegorie in
compiute immagini che ne racchiudono la sostanza, fino al rango di una
rivelazione. Molto bene si esprime il nostro grande filosofo a proposito
dell’immagine ideale della statua greca: in essa l’artista quasi mostrò
alla natura ciò che essa aveva voluto ma non aveva pienamente potuto;
per cui l’ideale artistico superò la natura. Della fede dei greci negli
dei potrebbe dirsi che essa si sia attenuta sempre all’ antropomorfismo,
secondo la tendenza artistica ellenica. I loro dei furono immagini
chiaramente individuate e definite; i loro nomi servivano a determinare
concetti generali, allo stesso modo che i nomi degli oggetti colorati
servivano a definire gli stessi diversi colori, per i quali i greci non
avevano denominazioni astratte come le nostre; e Ii chiamavano dei per
indicare la loro natura divina; quanto al divino in se stesso lo
chiamavano “il Dio”. Mai venne in mente ai greci di pensare Dio come
persona, e di conferirgli una figura, come fecero invece con i loro dei;
esso rimase un concetto affidato alla definizione dei filosofi, intorno
alla cui chiara determinazione invano si affaticò a lungo lo spirito
ellenico, finché accadde che da una massa di povera gente entusiasta
giunse l’incredibile novella che il Figlio di Dio si era sacrificato in
croce per la liberazione del mondo dai legami dell’inganno e del
peccato. A questo punto non si ha più da fare con magnifiche e varie
elucubrazioni della ragione umana, che pure cerco di rendersi conto
della natura di questo Figlio di Dio che era passato sulla terra e aveva
sofferto fino all’infamia: una volta manifestatosi, con la sua
apparizione, il grande miracolo del capovolgimento della volontà di
vita, che i credenti avvertivano in s stessi - già in questo era
compreso l’altro miracolo della divinità del Salvatore. Ma con ciò si
ammetteva anche automaticamente che Dio si fosse manifestato in forma
umana: il corpo teso sulla croce nel dolorante martirio era l’immagine
stessa dell’infinito amore misericordioso. Era forse anch’esso soltanto
un simbolo atto a suscitare la più alta compassione, l’adorazione del
dolore, e l’imitazione attraverso l’annichilimento di ogni volere
egocentrico ed egoistico? No: era un’ immagine, una vera e presente
realtà umana. ln lui e nella sua efficacia sul sentimento umano riposa
l’intero incanto, in virtù del quale la chiesa fini per assimilare il
mondo greco-romano. Ciò che al contrario doveva riuscirle nocivo, e
condurre infine all’ateismo sempre più pronunciato dei nostri tempi, fu
il collegamento, imposto con tirannica violenza, di questa divinità in
croce con il Creatore del cielo e della terra ebraico, Dio iracondo e vendicatore, il quale sembrò avere maggiore fortuna del misericordioso Salvatore dei poveri,
offerto in sacrificio agli uomini. Ma quel Dio venne in realtà
ripudiato dagli artisti: Jahvè nel roveto ardente, o anche il dignitoso
vecchio dalla barba bianca, che spunta fuori dalle nubi come Padre
benedicente il proprio Figlio, non poteva dir molto all’animo del
credente, anche se offertogli con tutti i lenocini dell’arte; mentre il
Dio che soffre in Croce, con il volto coperto di sangue e di ferite,
anche se reso artisticamente in modo rozzo, commuove in tutti i tempi.
Come sospinta da una necessità di carattere artistico, la fede, pur
lasciando stare al suo posto il Padre Jahvè, scivolò nel
necessario miracolo della nascita del Salvatore dal grembo di una Madre
che, dato che non era essa stessa divina, diveniva divina per il fatto
che, Vergine, procreava contro ogni legge di natura il Figlio, senza
concepimento umano. Un concerto infinitamente profondo espresso in forma
miracolosa. Tuttavia incontriamo più volte nel corso della storia del
cristianesimo il fenomeno della capacita di compiere miracoli in virtù
della purezza verginale, ove si mescola una spiegazione metafisica con
una spiegazione fisiologica, l’una rinforzando l’altra, propriamente nel
senso di causa finalis in accordo con una causa efficiens;
il miracolo della maternità senza concepimento naturale resta comunque
plausibile soltanto in virtù del maggior miracolo, che è la nascita
stessa di Dio: poiché è in questo che si manifesta la negazione del
mondo, come vita esemplare sacrificata al fine della salvazione. Dato
che il Salvatore è senza peccato, e anzi senza la capacita di peccare,
già prima della sua nascita doveva essere in lui completamente annullata
la volontà per cui non poteva propriamente patire, ma soltanto
compatire; e la radice di ciò doveva necessariamente manifestarsi nella
sua nascita, prodotta non dalla volontà di vita, ma dalla volontà di
liberazione dalla vita. Ma questo, che naturalmente poteva soltanto
intuirsi nell’entusiasmo dell’ illuminazione religiosa, venne, come
articolo di fede, esposto alle più gravi deformazioni da parte della
concezione realistica popolare. Era facile dire: immacolata concezione di Maria;
più difficile pensarla e più ancora immaginarla. La Chiesa, che nel
Medioevo affidava le prove dei suoi articoli di fede alla propria
ancella, alla filosofia scolastica, tentò infine di far ricorso anche
alle rappresentazioni sensibili: sul portale della chiesa di San Ciliano
a Wurzburg si vede in un bassorilievo la mite immagine di Dio che,
spuntando fuori da una nuvola insuffla, mediante una canna, l’embrione
del Salvatore nel corpo di Maria. E’ un esempio che vale per tutti.
Abbiamo accennato fin da principio alla decadenza dei dogmi religiosi
che scadono nell’artificio, esprimendo il nostro disappunto in
proposito: ma proprio questo esempio può servire a mostrarne nel modo
più chiaro il ruolo che assunse la Vera arte col suo potere
idealizzatore, solo che pensiamo alle immagini dei divini artisti, come
per esempio la cosiddetta Madonna Sistina di Raffaello. Ancora
in certo senso realistica alla maniera ecclesiastica e la
rappresentazione adottata dai grandi artisti del miracolo della
concezione di Maria, la cui Annunciazione è compiuta da un angelo che
appare alla Vergine; tuttavia c’è già la bellezza spirituale, spoglia di
ogni sensualità delle figure, che suggerisce il presagio del divino
mistero. Il quadro di Raffaello invece mostra l’adempimento del divino
miracolo, operatosi nella Vergine Madre, che tiene in braccio sollevato,
in una luce di rivelazione, il figlio nato dal suo grembo: e c’è in
questi una bellezza che il mondo antico, pur cosi artisticamente dotato,
non aveva neppure presagito: poiché non è più la severa castità che
rende intoccabile Artemide, ma l’amore stesso divine, lontanissimo da
ogni possibilità di consapevolezza di un difetto di castità ciò che
produce dall’intimo della negazione del mondo l’affermazione della
liberazione e della salvezza. Ed ecco che e proprio questo inesprimibile
miracolo che vediamo davanti a noi con i nostri occhi, mobile e chiaro,
intimamente legato alla più eletta esperienza del nostro essere
profondo, e tuttavia remoto da ogni pensabilità di esperienza reale; per
modo che, se la figurazione greca della natura metteva innanzi agli
occhi l’ideale, non raggiunto dalla natura, ora è l’artista che offre
finalmente il segreto, non afferrabile nè determinabile concettualmente,
del dogma religioso in una sorta di aperta rivelazione, che si compie
non più nell’ambito della ragione raziocinante ma in quello
dell’intuizione rapita. Anche un altro dogma si offriva alla fantasia
dell’artista; precisamente quello a cui la Chiesa sembrò tenere più che
all’altro della salvezza mediante l’amore. Il vincitore del mondo
sarebbe stato anche il giudice del mondo. Il divino fanciullo aveva
lanciato dall’alto del braccio della Vergine Madre il suo inaudito
sguardo sul mondo, riconoscendolo, oltre la molteplicità delle apparenze
suscitatrici dei desideri, quale esso e nella sua vera essenza, preda
della morte e avvolto nel terrore della morte. Davanti alla potenza del
Redentore questo mondo dell’odio e della brama non poteva resistere;
egli chiamava il derelitto gravato di pene alla redenzione, attraverso
la passione e la compassione, nel regno di Dio, mostrandogli il
naufragio del mondo pesato sulla bilancia della giustizia, nella pozza
dei suoi peccati. Dalle amene colline solatie, dalle quali prediligeva
annunciare la salvezza al popolo, in forma sempre chiara e
comprensibile, mediante immagini e parabole, egli indicava ai suoi
poveri la deserta e triste valle della Geenna, ove nel giorno del giudizio sarebbero finiti l’avarizia e la volontà omicida, mostrandosi l’una l’altra i denti. Il Tartaro, l’Inferno, Hela,
tutti i luoghi di punizioni post-mortali dei vili e dei malvagi si
ritrovarono nella Geenna; e fino ad oggi la Chiesa ha continuato a
spaventare con l’Inferno le anime mentre il Regno dei Cieli
si e andato allontanando sempre più. Ed ecco il Giudizio Universale
speranza per gli uni, terrore per gli altri. Non ci fu niente di
orribile e schifoso che non venisse impiegato con raccapricciante
artificio dalla chiesa per fornire alla fantasia terrorizzata dei popoli
immagini del luogo di eterna dannazione, a tale scopo chiamando a
raccolta tutte le rappresentazioni mitologiche delle religioni legate
alla credenza di pene infernali, Nella pietà di tanto orrore un artista
sovrumano sentì la vocazione di rappresentare altresì questo tremendo
evento, quasi che al concepimento dell’idea cristiana non dovesse
mancare anche il dipinto dell’ultimo giudizio. Se a Raffaello piacque
mostrare il Dio nato dal ventre del più sublime amore, Michelangelo
rappresentò nel suo affresco straordinario Dio che porta a compimento il
suo terribile compito, nell’atto di allontanare, respingendolo dal
beato Regno dei chiamati alla vita, ciò che appartiene all’ incombente
mondo della morte: e tuttavia al suo lato la Madre, onde e nato, che ha
sofferto con lui e per lui i più divini dolori, lancia il suo sguardo
eterno di pietosa compassione verso coloro che sono rimasti fuori della
salvezza liberatrice. Là era la fonte, qui il ribollente torrente del
divino.
Fonte: tratto da “Religione e Arte”, R.Wagner (Volpe Editore)