Alla fine degli anni novanta uscì un film di fantascienza dal titolo enigmatico: Gattaca.
Recentemente
ho scoperto che questa parola è stata inventata mettendo insieme le
iniziali dei nomi delle basi chimiche del DNA. Una scelta non casuale.
In Gattaca, infatti, tutto è genetica. La società è divisa in
due caste separate, quella dei soggetti modificati geneticamente e
quella degli individui concepiti con il vecchio metodo naturale. La
società vuole un corredo genetico impeccabile. Una scelta economica: le
aziende selezionano il personale in base al DNA, all’intelligenza
programmata geneticamente, alla bellezza scelta geneticamente, alla
salute garantita geneticamente. Gli imperfetti, i cosiddetti “non
validi”, sono un intralcio, un peso, un evitabile costo per la
collettività. Per questa ragione possono occupare solamente i ranghi
inferiori della società e svolgere lavori umili. Ogni prospettiva
sociale, professionale, umana è loro negata in partenza.
Vincent è un non valido.
I suoi genitori Io hanno concepito seguendo il vecchio metodo naturale.
Dalla nascita, a Vincent è stata diagnosticata una malattia cardiaca
ereditaria e la sua aspettativa di vita è inferiore a trent’anni. Cosi,
quando i suoi genitori decidono di avere un secondo figlio, scelgono di
averne uno valido, uno con il corredo genetico perfetto,
selezionato, modificato. Vincent, fin da piccolo, cresce con un sogno:
diventare astronauta. In questa società, però, è un sogno
irrealizzabile. Ma Vincent, crescendo, non si dà per vinto. Vuole
sfidare l’impossibile. Vuole entrare a Gattaca, l’ente
aerospaziale. Una follia. Si prepara alla perfezione per l’esame di
ammissione, si allena fisicamente, trova il modo di ingannare i
controlli sul DNA. In una società dominata dalla genetica, quello che
corre Vincent é il rischio più grande. Ma un sogno vale tutto.
Ad un
certo punto del film, Vincent sfida il fratello in una drammatica gara
di nuoto in mare aperto. Come faceva da bambino. Questa volta, però,
vuole affrontare una gara di resistenza. Fino alla fine, fino allo
sfinimento. Il suo fisico non può sopportare uno sforzo di questo
genere. Il suo cuore non può reggere. E’ una certezza: i computer, i modelli di calcolo, le analisi e i genetisti hanno già emesso la loro sentenza. Vincent deve
morire entro i trent’anni oppure può abbreviare ulteriormente la sua
vita, suicidandosi con uno sforzo fisico così prolungato. Ma Vincent
nuota. Nuota e nuota ancora. Una bracciata, un’altra e ancora un’altra.
Non si ferma più. Supera il fratello perfetto e lo batte. Quasi
lo uccide di fatica. Il cuore di Vincent, invece, quello malato, quello
che non serve a niente, non si è fermato. E’ andato oltre. Gattaca
non è solo un film sulla futura umanità, quella della genetica su
ordinazione. Genetica da catalogo. Figli comprati al supermarket. E’ la
storia di una forza che può superare ogni limite di comprensione. La
vera forza dell’uomo.
Non può esistere medico o scienziato su questa terra in grado di spiegarla. Nessuno può negarla. Gattaca
è un film sulla forza di volontà. Sul superamento di sé. Su quello che
non possiamo capire. Su quello che delle previsioni e delle certezze fa
carta straccia. Su quello che distingue gli uomini dagli incompiuti.
La forza di volontà. Una questione di testa e cuore. Lacrime e buon umore. E’ il Memento Audere Semper (Ricorda di osare sempre)
di Gabriele D’Annunzio. Quello dei MAS. E’ fatica, ostacoli da
superare, muri da abbattere, sacrificio, sangue e sudore. E’ il
terrificante uppercut di Primo Carnera alla conquista del
titolo del mondo o l’ultimo incontro della carriera di Paolo Vidoz. E’
il sorriso di mio nonno in sella a un sidecar nel deserto, in attesa di
preparare le tavole di tiro nella stessa tenda di Rommel e di
conquistare a colpi di artiglieria le bottiglie di Johnnie Walker. E’ l’ avanguardismo sedicenne dell’eroe fanciullo, di Sergio Bresciani. E’ il caricat delle Voloire
a sciabola sguainata tra le sabbie infuocate del deserto o le infinite
distese di ghiaccio del fronte dell’est. E’ il calcio in culo tirato
all’invasore dai nostri ragazzi del Piave, quelli della grappa buona,
del tabacco nostrano e dei baffoni all’insù. E’ lo slancio verso le
baionette di chi il Risorgimento lo ha fatto pensando a Garibaldi e alla
bandiera, non conoscendo il significato della parola “politica” e,
forse, nemmeno la lingua del fratello che stava combattendo al suo
fianco. E’ il ventre spaccato e la testa tagliata dalla Seki no Magoroku
di Yukio Mishima. E’ il sorriso di Sergio Ramelli e la perseveranza,
l’impegno e la continuità di chi lo ha seguito. E’ la rinuncia ai
riflettori e alle feste di Brigitte Bardot e il suo modo, semplice, di
invecchiare. E’ il gruppo di ragazzi di Ardito Desio, quelli che si sono
aggrappati disperatamente alle pareti assassine del K2 per piantarci un
tricolore. E l‘amore grande di Evita Peron. E’ il tuono dei cacerolazos. E’ lo sguardo chiaro e infinito del comandante Massud…
Dove sono gli altri?
Quelli del sarcasmo, dell’ironia usata per nascondere le paure, dei
fiumi di parole che misurano proporzionalmente la vigliaccheria. Quelli
che non ci provano nemmeno e che nascondono la loro inadeguatezza,
denigrando con sufficienza e aria di superiorità chi sa comportarsi da
uomo… di là, dalla loro parte, si sente solo, chiaro e forte, il raglio
di somaro!
Lo so,
il mondo, questo mondo è roba loro. Ma proprio per questo, gli uomini
che hanno deciso di vivere diversamente, quelli della volontà che spinge
nel fuoco o tra il ferro delle baionette, quelli che conoscono solo una
direzione, avanti, quelli che non si fanno spaventare dai
raggi accecanti del sole, non conoscono confini, spazi e tempo. Sono già
andati oltre. Come al loro solito, avanti.
E’ il
ruggito della belva. L‘assalto del leone. La schiena sempre dritta… Per
loro, grandezza, esempio e slancio, questo mondo non basta!