La
Repubblica (il termine latinizzante con cui si traduce il greco
Politéia, che meglio si potrebbe rendere con la parola Stato) occupa un
posto a sé tra le opere platoniche. Essa non é un semplice trattato
politico nel senso ristretto che noi oggi possiamo dare a questa
espressione, ma un vasto, ardito colpo d’occhio sulle prospettive
celesti e terrestri, umane e divine. Il problema della giustizia, che
nel secondo libro si dilata a problema dello Stato, e cioè della
giustizia in terra, diventa nella mitica atmosfera della conclusione il
problema stesso dell’anima negli spazi siderali dove si compie il ciclo
eterno delle morti e delle reincarnazioni. L’ordine, ossia la
manifestazione della giustizia, ci si rivela nei suoi tre aspetti
individuale, sociale e cosmico. E’ stato scritto giustamente che Platone
in un certo qual modo ha scritto sempre la Repubblica, non ha mai
cessato di scrivere la Repubblica. E’ chiaro infatti che il problema
dell’ordine, del giusto rango da attribuire ai valori sta alla base di
tutti gli altri specifici problemi. La trattazione del problema dello
Stato prende le mosse da una conversazione tenuta al Pireo in casa del
vecchio e ricco Cefalo, il padre dell’oratore Lisia. Sono presenti
Socrate, i due fratelli di Platone Glaucone ed Adimanto e il sofista
Trasimaco. Incomincia l’immaginaria fondazione dello Stato. Gli
esponenti di tutti i mestieri sono chiamati nella città ideale per
provvederla di tutte le comodità. Operai, agricoltori, artigiani,
ciascuno esperto nel proprio, particolare lavoro, devono dare la propria
opera per garantire il benessere dei cittadini. E’ cosi individuata la
prima funzione, cioè il sostentamento materiale. Ma una città non ha
bisogno soltanto di produttori di benessere. Essa richiede anche dei
difensori armati. Incomincia cosi la trattazione delle caratteristiche
della seconda classe funzionale, l’élite dei guardiani (fylakes) che si
protrae per alcuni libri. Essi vivranno in un rigido regime di proprietà
comunistica, Simili in ciò ai membri di un ordine monastico. Un
particolare sistema di procreazione di Stato farà sì che essi ignorino
l’identità dei loro genitori e che vivano insieme come tanti fratelli.
Anche le donne, parificate nei diritti, potranno far parte dell’élite
militare. All’interno di questa élite saranno scelti i filosofi,
destinati alla direzione suprema dello Stato. Ma, una volta fondato lo
stato dividendolo tra produttori, guerrieri e filosofi ed edificatane le
fondamenta sulle tre virtù rispettive, temperanza, coraggio e sapienza,
dove si troverà la giustizia? Essa consiste proprio in questo,
nell’ordine complessivo delle tre virtù all’interno dell‘anima umana e
delle tre caste all’interno dello Stato. E’ giusto quell’uomo, quello
Stato, dove ciò che è superiore, il principio intellettuale ed eroico,
si impone a ciò che e inferiore, la sfera degli istinti e degli
appetiti. La vera giustizia sociale si realizza quando a ciascuno viene
dato il suo e quando ogni cittadino sta al suo posto senza lamentarsi.
Platone chiama lo Stato ottimo che ha fondato aristocrazia, ossia,
letteralmente, il governo dei migliori. Tutte le altre forme politiche
si presentano come degenerazioni della città ideale. La prima
degenerazione, quella meno remota dal modello immortale è la timocrazia,
ossia il potere della nobiltà cupida di onori. Alla testa della società
non sono più i sapienti iniziati alla visione del Sole delle Idee ma
una semplice casta militare di tipo spartano. Un’ ulteriore
degenerazione conduce all’oligarchia, cioè al governo dei pochi ricchi,
della borghesia capitalista. Ma anche qui l’inefficienza spirituale dei
governanti porta con sé un nuovo rivolgimento, si cade nella democrazia,
nel regime dell’incompetenza elevata a sistema dove la plebaglia
spadroneggia e tutti vivono gaiamente, canagliescamente alla giornata
senza proporsi un fine onorevole. Il giusto castigo della leggerezza
democratica è la tirannide. Infatti, dove il livellamento è massimo e
non sussiste più alcuna aristocrazia dirigente, è facile per un uomo
ambizioso e senza scrupoli conquistare la cittadella dello stato.
Platone ha spiegato quale sia l’anima giusta e ha seguito quest’anima
nell’interno dello Stato per mostrare come ad un’anima di un certo tipo
corrisponda uno stato dello stesso tipo. Gli rimane ora il compito di
descrivere il cammino di quest’anima oltre la morte. Lo scenario si
amplia della superficie di questa piccola, opaca terra all’intero
universo donde si volge il fuso della Necessità. Er, guerriero panfilo,
raccolto come morto sul campo di battaglia e messo sul rogo, si ridesta e
rivela i segreti dell’invisibile. In un prato risplendente convengono a
frotte le anime. Due voragini si schiudono nel cielo, due nella terra.
Dal primo discendono i giusti, dalla seconda riaffiorano le anime
colpevoli. Le anime si mettono in marcia finché giungono “in un
luogo donde potevano scorgere, tesa dall’alto attraverso tutto il cielo e
la terra, una luce diritta come una colonna, molto simile
all’arcobaleno, ma più intensa e più pura”. Un araldo parla alle anime convenute: “Questa
e la parola della vergine Lachesis, figlia di Necessità: o voi anime
d’un giorno! Ecco l’inizio del nuovo ciclo, che porta morte alla stirpe
umana. Il demone non sceglierà voi, ma voi sceglierete il demone… la
colpa é di chi sceglie, il Dio è innocente!”. In questo estremo
giudizio dove ogni anima, responsabilmente, sceglie il suo destino è
espresso con severa, inattenuata chiarezza il senso dell’ascesa e della
decadenza dei singoli e degli Stati inscindibilmente legata alla
responsabilità spirituale di individui e di governanti. Spira da questa
scena grandiosa un senso di tragica, solenne responsabilità che Kurt
Singer nel suo libro su “Platon der Grunder” ha saputo rendere con
significativa efficacia:
“In
queste parole finali di Er figlio d’Armenio, destato da parvenza di
morte e inviato dagli dei agli uomini quale messaggero, ànghelos, per
recar loro la scienza dei destini dell’anima, v’é un’ eroica durezza del
singolo contro se stesso che cresce sino a raggiungere il limite
dell’aspra ferocia.
..V’é
una nuova misura eroica, una nuova tensione tragica nel mondo. L‘intera
opera di Platone ce lo attesta e mai con tanta nudità, con tanta
potenza che in questo finale della Repubblica di cui non a caso é
protagonista un guerriero di primordiale ‘stirpe straniera che si desta
da sonno di morte per parlare dall’alto d’un rogo”.
Fonte: tratto da “Platone”, A.Romualdi (Volpe Editore)