Il 12 giugno del 1987 usciva nelle sale statunitensi
uno di quei film di culto rimasti impressi nell’immaginario di molti.
Una pellicola di pura azione che ha poco di
“intellettuale” ma che è stato molto importante poiché ha introdotto una nuova
creatura nel panorama fantascientifico.
“Predator” è quel film che unisce una sorta di
machismo made in USA tipico degli anni reganiani con una dose di originalità.
Sulla scia del seguito a nome “Alien 2” di Cameron e
per certi versi anche del seminale primo “Terminator”, il film di McTiernan
colpì subito perché riprendeva l’adrenalina per eccellenza, quella della caccia
all’uomo.
Un ribaltamento di ruolo. L’essere umano che diventa
da cacciatore a preda. Tema questo già sviscerato in un capolavoro del passato
(1932) che solo i cinefili più incalliti ricordano: “La pericolosa partita”.
“Predator” si svolge in uno scenario perfetto (la
giungla messicana) ed introduce un nuovo personaggio che usa la stessa crudeltà
della squadra di mercenari capitana da Dutch (Arnold Scharzenegger) ma che con
loro gioca una partita a scacchi, divertendosi nei loro confronti.
Uccidendoli uno alla volta come appunto fanno i
cacciatori, tergiversando in una soggettiva senza soggetto.
“La foresta ha preso vita e lo ha rapito" è una
frase iconica del film ed in effetti è la foresta forse la protagonista della
storia. Luogo pericoloso ed insidioso in cui l’alieno si mimetizza e studia
attentamente. Usando una vista “alterata” che scansiona il calore corporeo
degli uomini.
L’alieno non è un invasore. È solo un
cacciatore, con un codice comportamentale quasi cavalleresco, che mira
esclusivamente a prelevare trofei di caccia.
Un film di “mostri” che non ha l’esigenza impellente
di mostrare o far capire le sembianze della nuova creatura che atterrisce ma
nello stesso modo affascina per la sua capacità di mimetizzarsi. Nella continua
antitesi disturbante tra prossimità ed irraggiungibilità.
Solo alla fine, in un duello ad armi pari si scopre
la reale natura del Predatore che Dutch affronta. Così come se si affrontasse
il proprio doppio in forma elementare. Senza tecnologia.
Il duello ad armi pari rappresenta una
complementarietà ed anche una forma di rispetto. La caduta della maschera e
l’urlo.
Due simboli per eccellenza. Il primo che tiene a
bada la reale natura bestiale e il secondo che invece rimarca la vera essenza
di quello che siamo. Senza filtri.
OC