Esistenza contemporanea – E.Cioran

Siamo qui per lottare con la vita e con la morte, e non per schivarle, come ci invita a fare la civiltà – opera di dissimulazione, di maquillage dell’insolubile. Poiché essa non contiene in sé nessun principio di durata, i suoi vantaggi, che corrispondono ad altrettanti vicoli ciechi, non ci aiutano né a vivere meglio né a morire meglio.

Quand’anche, assecondata dall’inutile scienza, giungesse a spazzar via tutti i flagelli o, per allettarci, a distribuirci pianeti a mo’ di ricompensa, non riuscirebbe che ad accrescere la nostra diffidenza e la nostra esasperazione. Più si dimena e si pavoneggia, più invidiamo le età che ebbero il privilegio di ignorare le comodità e le meraviglie con cui non cessa di gratificarci. «Con un po’ di pane d’orzo e un po’ d’acqua, si può essere felici come Giove» amava ripetere il saggio che ci intimava di nascondere la nostra vita.

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Con il grado di mobilità che abbiamo raggiunto, non siamo più padroni dei nostri gesti né della nostra sorte. Ad essi presiede sicuramente una provvidenza negativa i cui disegni, a mano a mano che ci avviciniamo al nostro termine, si fanno sempre meno impenetrabili, poiché si disvelerebbero agevolmente al primo venuto se solo questi volesse fermarsi e uscire dal suo ruolo per contemplare, sia pure per un istante, lo spettacolo di quest’orda affannata e tragica di cui fa parte.

Tutto considerato, il secolo della fine non sarà quello più raffinato, e nemmeno il più complicato, ma il più convulso, quello in cui, dissoltosi l’essere in movimento, la civiltà, in un supremo slancio verso il peggio, si sgretolerà nel turbine che avrà suscitato. Dal momento che nulla può impedirle di precipitarvi, rinunciamo a esercitare le nostre virtù contro di essa, impariamo anzi a scorgere negli eccessi di cui si compiace qualcosa di esaltante, che ci inviti a moderare le nostre indignazioni e a rivedere i nostri disprezzi. Così questi spettri, questi automi, questi allucinati sono meno odiosi se si considerano i moventi inconsci, le ragioni profonde della loro frenesia: non avvertono dunque che la proroga accordata loro si riduce di giorno in giorno e che già si profila l’epilogo? E non è forse per allontanarne l’idea che si lanciano a capofitto nella velocità?

Se fossero sicuri di un altro avvenire, essi non avrebbero alcun motivo di fuggire né di fuggire se stessi: rallenterebbero il ritmo e si insedierebbero senza timore in un’aspettativa indefinita. Ma per loro non si tratta neppure di questo o quell’avvenire, perché di avvenire sono semplicemente privi; sorta dal rimescolio del sangue, è questa una certezza oscura, non formulata, che hanno timore di prendere in considerazione, che vogliono dimenticare andando in fretta, sempre più in fretta, rifiutando di avere per sé il minimo istante. Ciò nondimeno, l’ineluttabile che tale certezza racchiude, lo raggiungono proprio con quell’andatura che, secondo il loro pensiero, dovrebbe allontanarli da esso. Di tanta fretta, di tanta impazienza, le macchine sono la conseguenza e non la causa. Non sono le macchine che spingono il civilizzato alla rovina; semmai, questi le ha inventate perché già vi era avviato; mezzi, ausili per raggiungerla più rapidamente e più efficacemente. Non contento di andarci di corsa, ha voluto andarci in auto. In questo senso, e soltanto in questo, si può dire che le macchine gli permettono in effetti di «guadagnare tempo». Egli le distribuisce, le impone ai popoli arretrati, ai ritardatari, perché possano seguirlo, superarlo anzi nella corsa al disastro, nell’instaurazione di un amok universale e meccanico. E proprio al fine di assicurarne l’avvento egli si accanisce a livellare, a uniformare il paesaggio umano, a cancellarne le irregolarità e a bandirne le sorprese; ciò che gli piacerebbe farvi regnare non sono le anomalie, è l’anomalia, l’anomalia monotona e abitudinaria, convertita in regola di condotta, in imperativo. Coloro che vi si sottraggono, li taccia di oscurantismo o di stravaganza, e non disarmerà prima di averli ricondotti sulla retta via, ai suoi stessi errori. Gli illetterati sono di gran lunga i più restii a caderci; e allora ve li spingerà a forza, li obbligherà a imparare a leggere e a scrivere, affinché, presi nella trappola del sapere, nessuno di loro sfugga più all’infelicità comune.

Fonte: tratto da “La Caduta nel tempo”, E.Cioran (Ed.Adelphi)