Gli Ianva sono un collettivo artistico
genovese composto dall’amalgama di musicisti di diversa estrazione musicale,
raccolti
attorno alla figura
centrale di Mercy.
La loro proposta è passionale,
cantautoriale e difficilmente catalogabile, sin dalla loro nascita hanno saputo
coniugare una vena marziale/neofolk con la
canzone d'autore italiana.
Italia 2029, lo scenario da voi descritto è
molto vicino alla realtà, anzi persino lontano, vista la già attuale
imbarazzante tecnocrazia insidiatasi.
Oggi, 4 novembre 2012, come ridefiniresti
il concetto di Azione, qual è per te il ruolo dell'“uomo
differenziato”?
Si parte subito a testa bassa, a quanto
vedo! Questa, almeno per quanto mi riguarda, è la domanda delle domande. Tutti
hanno capito o stanno capendo che, attraverso le prassi consuete, le cose non
faranno che peggiorare, ma, nello stesso tempo, nessun margine di azione
diretta appare più praticabile. In verità le cose sono anche peggio di quanto
sembrano. L'azione, a mio avviso, non è più ridefinibile. Non solo mancano le
risorse: economiche, ideali, antropologiche, ma addirittura la dimensione
fisica entro cui l'azione possa articolarsi. Inoltre manca il progetto,
l'idea-mondo a cui un'azione che richiede, come minimo, la messa in gioco della
vita dovrebbe tendere.
Infine manca un fondamento più sottile, ma
assolutamente cruciale che è di tipo psicologico e culturale, anche se, in
fondo, queste sono categorizzazioni parziali. Stiamo parlando, in una parola,
di immaginario.
Non cogli la sensazione di finzione,
d'improbabilità, che si sprigiona da questi concetti non appena si trasformano
in parole messe nero su bianco? Che atmosfera d'inverosimiglianza, a metà tra
il delirio e il gioco infantile stiamo alimentando? Chi sarebbe pronto a
credere che simili inquietudini possano trasformarsi in motori della Storia?
Riesce la media dei nostri contemporanei a concepire un tempo e un mondo dove
lo sono state? Eppure è da lì che arriviamo tutti. Oggi sembrano, tutto al più,
materiale da fiction ed è così che ho deciso di trattarle.
La sfida potrebbe essere questa:
contro-narrare il tempo presente. Attenzione: non sto parlando di
contro-informazione, ma di contro-narrazione. Sono due concetti molto diversi.
Attraverso la comunicazione hanno abolito
la Storia e, dunque, la facoltà delle volontà individuali di concorrervi. La
storia è il terreno elettivo dell'Azione, abolita l'una hanno reso
impraticabile l'altra. L'unica speranza consisterebbe nell'interrompere
l'ipnosi per permettere l'irrompere della Storia e, con essa, delle ragioni
dell'azione.
Serve un lavoro poderoso sull'immaginario
che durerà, temo, generazioni.
Nei vostri testi si possono trovare, seppur
in maniera differente, delle affinità con le tematiche care agli sloveni
Laibach. Il totalitarismo moderno, viene visto non in antitesi con la società
liberal/capitalista bensì come un altro fenomeno di massa il cui sviluppo è
destinato ad una semplice struttura
burocratico-amministrativa. Eppure, oggi tutto ciò che non è democrazia viene
superficialmente bollato come “fascista”. Come si è giunti secondo te ad una
tale pochezza di vedute?
E' la logica conseguenza di un processo
storico. Da un lato abbiamo una sola ideologia superstite e trionfante tra
quelle che si sono affrontate sul campo novecentesco. Dall'altro, una
sofisticazione e un potenziamento degli apparati preposti alla sua
salvaguardia, in particolare nel comparto della comunicazione e della
propaganda, quali mai si erano avuti nella storia. La tentazione di ergersi a
dogma indiscutibile, a forma definitiva di ordinamento sociale è stata, negli
ultimi decenni, il solo vero motore delle dinamiche umane.
Il liberal-capitalismo, oltre a rivendicare
per sé la guida dei processi economici, ha preteso e ottenuto, per assenza di
competitori, anche una sorta di colonizzazione delle anime. L'idea di
democrazia che viene continuamente propugnata attraverso gli organi
d'informazione è considerata, all'interno delle cerchie che contano, un patetico
ferrovecchio, un reperto da museo che, tuttavia, è necessario investire
attraverso la comunicazione di un'oggettività del tutto illusoria. In realtà,
come tutti i dogmi, l'unica ideologia rimasta ha finito per esprimere una sorta
di sinedrio intoccabile, i cosiddetti “mercati” e i loro deus ex machina.
Quando ci accusano di indulgere a
fascinazioni totalitarie replico, e solo se è il caso, con un tridente di
argomentazioni.
La prima: che mi rifiuto di prendere in
considerazione le obiezioni di chi ancora non ha compreso che dentro un
totalitarismo ci vive già. Chi dorme sonni tanto profondi e si dimostra
ipnotizzabile al punto da credere di vivere tempi normali, perde, a mio avviso,
ogni facoltà di obiezione.
La seconda: che questo totalitarismo è di gran
lunga il peggiore che si sia mai visto perché non riguarda un solo popolo e
poi, semmai, come effetto collaterale altri, ma l'intera biosfera o, per
semplicità, tutto il vivente.
La terza: io chiedo quale totalitarismo,
anche il più brutale, è giunto al punto di negare a un paese “indebitato” come
la Grecia, la fornitura agli ospedali di farmaci antitumorali. Ha pensato di
privatizzare persino i paesaggi o il patrimonio artistico. Ha sottoposto a un
regime di usura, degno dei peggiori cravattari da bassofondo, intere
popolazioni al punto che c'è chi si inguaia con gli usurai veri, magari
indirizzato dalle stesse banche, per poter pagare le tasse. Che costringe
anziani a lavori usuranti e che, venute meno le forze, li scarica a casa senza
pensione e senza stipendio in perfetti termini di legge. Che accusa di
anti-democrazia tutto l'altro da sé, ma poi avverte che le sole vere elezioni
che contano le fanno i mercati.
Complimenti per
il vostro ultimo disco “La Mano di Gloria”, crediamo che alcuni pezzi
siano tra le cose più belle che abbiate mai composto. A questo proposito, ci
interessava approfondire con te cosa ha ispirato il testo della magnifica “Portatori
Del Fuoco”.
Vi ringrazio. Pensa che c'è stato chi ha
scritto che il lavoro faceva schifo prima ancora che uscisse effettivamente.
Questo disco può fregiarsi dell'onore di aver tenuto a battesimo anche una
nuova tipologia di “critico”: il
blogger chiaroveggente in grado di dissertare sul nostro irreversibile
“scadimento qualitativo” prima ancora di aver potuto ascoltare una sola nota.
Miserie italiote a parte, il pezzo che citi è nato in modo piuttosto atipico
anche per noi. Il problema consisteva nel riassumere e comprendere in una sola
composizione fatti e concetti che nel libro si prendono un numero consistente
di pagine. Rispettare lo schema narrativo e tutte le considerazioni relative al
concetto di “azione senza ritorno” era pressoché impossibile, quindi sono
ricorso alla metafora della tauromachia. Dove, naturalmente, il ruolo positivo
è incarnato dal toro che lotta per la sua vita e che, contro ogni previsione,
capovolge il pronostico iniziale. Tra l'altro la moderna corrida è solo un
pallido riflesso, corrotto e vile, della vera tauromachia. Del tutto allineato
a ciò che resta di attingibile, da parte dell'uomo di oggi, dell'antico spirito
che l'aveva ispirata.
Nei giochi sacri
che venivano disputati in primavera, durante l'età minoica, giovani di ambi i
sessi si cimentavano con questa pericolosa disciplina che consisteva nel
compiere spericolati volteggi e spettacolari acrobazie sul dorso di tori
infuriati. Dovrebbe far riflettere il fatto che, in quel tempo, anche le esili
ragazzine o le eleganti dame cretesi, ben acconciate, ingioiellate, ma a seno
nudo, affrontassero colossali tori senza che, alla fine, nessuno, né umano, né
animale ci rimettesse la vita. Mentre gli odierni, virilissimi, “campioni di
coraggio” nella corrida affrontano animali storditi dai barbiturici, feriti
preventivamente alle zampe, con gli occhi spalmati di vaselina e semi-dissanguati
dalle banderillas. Il rovesciamento di prospettiva e, in definitiva, il
capovolgimento valoriale mi sembra molto nitido. Il pubblico delle moderne
corride sa bene come l'animale sia, in realtà, ridotto ai minimi termini prima
ancora di scendere nell'arena, ma malgrado ciò saluta la sua uccisione con
entusiasmo. Possiamo dire, anzi, che la esige. Il giovanetto minoico o la
ragazza che dovevano contrapporre solo tempismo, agilità e grazia alla forza
primordiale, dovevano fare anche in modo che non fosse necessario abbattere
l'animale per salvare loro la vita nel caso di un'esecuzione errata, altrimenti
la cerimonia poteva essere dichiarata fallita. Tutto questo, nota bene, in un
mondo che non avvertiva alcuna necessità di dichiararsi garantista e umanitarista
ogni due minuti.
Faticate a
suonare in Italia, ma quando c’è l’occasione i risultati sono straordinari. Mi
riferisco al concerto di Firenze del 2 Giugno scorso. L’alchimia che riuscite a
trovare tra voi sul palco è sorprendente, quanto vi appaga l’esibizione live?
Quella del palco
è un'esperienza che ognuno vive a modo suo e, dunque, a rigore del vero dovrei
parlare solo per me. Ma posso dirti che esistono diversi aspetti relativi al
momento live che accomunano tutti noi. La prima, nel caso tutto fili liscio, è
la soddisfazione di avere compiuto il proprio dovere e di avere svolto bene un
compito che ci è stato assegnato. E' un concetto, questo, che potrà far
sorridere qualcuno, ma io so che è così: ogni artista che, di questi tempi, sia
disposto a correre qualche rischio per le sue opinioni è, idealmente, come
investito da una responsabilità superiore. Vedi, a differenza di tanti colleghi
che posano da modesti e da scettici, previo poi dimostrare nei fatti e nel
presunto anonimato vanaglorie e malmostosità da primedonne isteriche, io non
rigetto la qualifica di artista, anzi la rivendico. La prima, logica
conseguenza di questa affermazione è il dovere che avverto di esserne
all'altezza. E per esserlo c'è un solo modo: offrire, nell'esposizione nuda e
cruda della propria arte, una rappresentazione coerente con le sue premesse
teoriche. Quello del concerto è, per così dire, il momento della verità. Lì si
torna a misurare il valore delle cose con il metro dell'oggettività. In questo
senso l'esperienza è davvero appagante come sempre lo è la verità quando riesce
ad affermarsi.
In una recente intervista, quasi in maniera
Kafkiana, affermi che “Non conosciamo le
nostre prospettive individuali, salvo forse che vivremo schiavi di lavori
atroci e ostaggi di un sistema infernale fino all’ultimo dei nostri giorni”
Credi dunque che attualmente nel nostro
microcosmo ci si debba ridurre a piccole azioni di sabotaggio del modus vivendi
dell’uomo contemporaneo?
No, credo che persino le piccole vendette
consumate di soppiatto siano un meschino lusso che il miserrimo uomo
contemporaneo non può più permettersi. Ne va della sussistenza. Il problema è
che, da singoli individui, si può unicamente cercare di mantenere viva e pulita
la deandreiana “goccia di splendore” dentro di sé. Una sorta di sezione aurea
interiore. Le rivoluzioni invece, pur nascendo in genere dall'ideazione di
pochi, necessitano di un popolo per essere fatte. Per questo si sono dati tutto
questo gran da fare per minare e disperdere i popoli. E' perfettamente logico e
coerente e davvero non mi spiego come l'accusa di complottismo funzioni ancora
tanto egregiamente come deterrente alla luce di una simile evidenza.
A parte ciò, si dice in giro che mi
vergognerei di ciò che faccio per campare. Ebbene, mi occupo della rimozione e
del trasporto di rifiuti speciali e pericolosi e, per quanto possa freddamente
supporre, non passeranno molti anni prima che venga il tempo di dare, come si
dice a Genova, la mia schienata nella fossa. Ma tutto questo non influisce più
di tanto sullo stato d'animo che tu hai ricordato: certi membri della band
fanno lavori altamente qualificati, ma sono frustrati e impazienti lo stesso.
Il problema è che nessuno di noi sente più di lavorare per se stesso: siamo
chiamati a concorrere, a prezzo di liquidazione, al funzionamento e alla
perpetuazione di un meccanismo che fa orrore a tutti. E chiunque, più o meno
lucidamente, avverte la sensazione che questo meccanismo non è più il mezzo, ma
il fine. Il mezzo siamo diventati noi: sacrificabile, deperibile, sprecabile,
per dirla con Pietro Jorio.
Se dovessimo
scegliere un libro che rappresenti meglio la matrice ideologica che traspare
dalla proposta musicale di Ianva, sceglieremmo sicuramente “Il Trattato Del
Ribelle” di E. Junger.
Oltre che
ideologicamente, anche da un punto di vista prettamente tecnico. Mi riferisco
al vostro “rifiuto” per l’elettronica, il rumorismo, l’industrial. Junger
sosteneva che la tecnica è stata la vera vincitrice della guerra, spiegava come
essa abbia asservito tutti, in ogni ambito.
Quanto ti senti
vicino al ribelle Jungeriano?
Non è del tutto vero che rifiutiamo
l'elettronica, il rumorismo e l'industrial: sottotraccia, i nostri dischi ne
sono infarciti. Ciò che, invece, vediamo con molto sospetto è la pretesa di
alcuni “artisti” o cerchie rifugiati sotto quelle insegne, di valutare il
lavoro altrui secondo un metro che era si di rottura, ma trenta o quarant'anni
fa, quando loro non erano ancora nati. In quel tempo, per ottenere un suono,
era giocoforza mettere a punto anche la fonte che lo produceva. Oggi, basta un
programmino crackato che gira su un normale PC. Registrare la tua lavatrice che
fa la centrifuga, scaricare il suono in traccia audio, mandarla in saturazione,
poi stampare trenta copie CDr e corredare il tutto con una bella foto di
Auschwitz o della fidanzata legata e imbavagliata con il culo per aria è ancora
Arte? Non so voi, ma io avanzo senz'altro le mie riserve.
Quanto a Junger, lo sento vicino nella
misura in cui un'indole tendenzialmente libertaria come la mia deve, da un
certo punto in poi, accettare la realtà del fatto che l'assenza di un
ordinamento o di uno stato non è la condizione per l'instaurazione di una
perfetta libertà, ma la più certa garanzia per perdere anche la poca di cui
ancora disponiamo. La presenza di un ordine iniquo non è una buona ragione per
preferire il caos e l'unica vera legge naturale che è quella del più forte.
L'utopia anarchica è stata per lungo tempo
fascinosa e, per molti versi, un veicolo intellettuale potente per il progresso
del pensiero. Ma i limiti di una dottrina nata in epoca di monarchie assolute e
di dispotismi e che ora si ritrova a contrapporre alle sofisticatissime
tecnocrazie che ci schiacciano analisi e alternative antiquate e puerili, sono
ormai impietosamente sotto gli occhi di chiunque.
Junger, che nel primo conflitto mondiale
aveva molto giustamente ravvisato l'avvento di una nuova era in cui l'uomo e
tutti i suoi attributi naturali avrebbero dovuto soccombere alla forza bruta
esercitata dal “materiale” e dalla tecnica, si era spinto, in seguito, anche
molto oltre. In particolare a comprendere come il moltiplicarsi del
coefficiente di complessità tecnica all'interno di una società avrebbe finito
per determinare l'instaurarsi di un'oligarchia tecnocratica, del tutto
incompatibile con i presupposti teorici della democrazia. Il problema è chiaro:
le competenze tecniche non si acquisiscono attraverso una consultazione
elettorale. Anche il più plebiscitario dei responsi usciti dalle urne non fa
comunque di un incompetente un luminare. Il guaio consiste nel fatto che questo
tipo di società necessita di un'auto-narrazione costante, di cui il dogma
democratico è uno dei fondamenti basilari. Dunque che accade? Esattamente ciò
che stiamo vivendo oggi: una finzione di democrazia che si consuma e si
esaurisce negli apparati della comunicazione, con i veri poteri accentrati in
cerchie ristrette di specialisti non soggetti a interferenze da parte della
cosiddetta volontà popolare. Specialisti, peraltro, auto-accreditati e cooptati
all'interno di cerchie riservate. E che, comunque, dovessero essere valutati
dai risultati, meriterebbero come minimo lo squartamento.
In quest'ottica, la via del ribelle
jungeriano è senz'altro la più logica tra le contrapposizioni disponibili anche
se, temo, oggi potrebbe essere non più sufficiente.
Oggi più che
mai, abbiamo sempre più custodi della democrazia,
dell’egalitarismo, del progresso e dello scientismo. Quanto è dura per una
artista come te, ad ogni espressione estetica o letteraria, dover sempre stare
attento a tali forme mentis invadenti che affibbiano etichettine ideologiche
ovunque e che tentano sempre mediocri mediazioni?
Guarda, la maggior parte dei problemi, se
così si possono definire, non li abbiamo certo avuti dagli aedi dello
scientismo, dai bigotti dell'egualitarismo o dagli invasati del progresso. Gli
schizzi di liquame che ci sono arrivati addosso se ne sono dipartiti da una
fetidissima cloaca che è tutta interna al nostro cosiddetto ambiente. E' lì che
si annidano i soli, veri casi di subumanità in cui mi sia imbattuto.
Con questo non voglio dire che non esista
una censura e una sorta di congiura del silenzio da parte dei grandi media
verso tutto ciò che non è allineato con i presupposti ideologici che hai
elencato, ma in questo trovano nella “scena” volenterosi alleati e utilissimi
idioti pronti, con il loro agitarsi, a ricondurre ogni avanguardia dissidente
alla palude.
Nel mio personale caso, poi, pago moneta
sonante anche certi miei tratti temperamentali. Contrariamente ad altri,
infatti, che investono larghissima parte del loro tempo a leccare terga a
destra e a manca, io preferisco investire il poco che la vita quotidiana mi
lascia in attività più interiormente appaganti.
Capisco l'esigenza del promuoversi e, infatti,
con una parte della critica, quella da più tempo sulle barricate e fatta
autorevole da militanze pluridecennali, abbiamo un rapporto molto franco e
cordiale. Semplicemente riconosco la loro legittimità a giudicare il mio lavoro
allo stesso modo in cui loro riconoscono la mia ad esprimermi. Ma da qui a
mettersi a scodinzolare davanti a qualunque ignorante che si alza la mattina e
apre un blog, a qualunque “agitatore culturale” senza cultura o a ogni “critico
musicale” diciannovenne che non ha un solo disco originale in casa, ce ne
passa.
Il fatto è che me ne frego. Interloquisco
con chi valuto all'altezza, anche solo per l'educazione dimostrata, o con gente
da cui ho solo da imparare. Almeno fintanto che la mia sussistenza non
dipenderà dai critici, posso permettermi di fottermene in eguale misura
dell'ostracismo del Solone radical-chic di “Repubblica” e della malafede
dell'anonimo bloghettaro fascio-mimetico che, nel 99% dei casi, “produce
musica” dal PC della sua cameretta. Non c'è alcuna ragione stringente che possa
costringermi a convivere con questo ciarpame, anche se dubito che riuscirei ad
adulare certa gente pur se ne andasse del pane.
Un altro brano de “La Mano di Gloria” che
svetta è “Alta Via”, riferito al sacro luogo ligure. Quanto sei interessato
all’alpinismo come ascensione, come via per il superamento dei limiti della
condizione umana?
Da ragazzo sono stato un promettente
alpinista. Avevo anche iniziato ad arrampicare free, ma poi, sono prevalsi
altri interessi. Evidentemente non ero così versato per il superamento dei miei
umanissimi limiti. Sono stato anche un valido portiere di calcio: fino ai
quindici anni tutti erano certi che sarei finito nel professionismo e invece...
Il fatto è che in ogni disciplina sportiva comporta, anzi, dovrebbe comportare
una dedizione e un atteggiamento mentale quasi monacale. Non voglio dilungarmi
su ciò che è diventato oggi lo sport professionistico, anche perché è sotto gli
occhi di tutti. Ma faccio notare che il nostro ultimo disco è dedicato a due personaggi
dissimilissimi tra loro, a partire dai rispettivi campi in cui si svolsero le
loro vite e brillarono le loro rispettive eccellenze. Uno è Herbert Pagani, un
artista veramente colossale, oggi indecentemente dimenticato. L'altro è Walter
Bonatti che era, a partire dall'aspetto esteriore, l'incarnazione vivente di
tutto quanto vi è di epico ed eroico nella scelta della “via delle vette”. Un
uomo, a ben vedere, sorprendentemente pacato e modesto, come solo sa essere chi
è conscio che l'entità della sua sfida trascende le miserie comuni e le
meschinerie umane. Ma l'obiettivo finale di una vita come la sua non credo sia
un protervo superomismo, un aristocratico distacco, venato di disprezzo, dai
propri simili quanto, piuttosto, il conseguimento di una pienezza e di una
completezza interiore che non può essere che perseguito in solitudine, lontano
dal clamore della mondanità. Alla fine il limite, il nemico è sempre lo stesso:
la paura. Innalzare il livello della sfida equivale a moltiplicare la distanza
tra sé e questo limite comune a tutti.
Non ti facciamo una domanda sulla
degenerazione delle arti, ma qual è secondo te la funzione dell’arte
contemporanea? Essa deve “limitarsi” a contrastare l’uomo contemporaneo o può
aspirare ad altro?
Fino a pochi anni fa avrei trovato
letteralmente odiosa l'idea stessa che l'Arte, per essere davvero tale, dovesse
a sua volta riconoscere l'esistenza di un limite. Non dissimilmente da
qualunque altro mio contemporaneo ho assorbito e condiviso a lungo molti degli
stereotipi della mia epoca. Uno dei più tenaci, poiché affonda le sue radici in
temperie culturali vecchie di almeno un paio di secoli e, da allora, non ha
fatto che auto-alimentarsi riguarda la correlazione, percepita come
indissolubile, tra il concetto di Arte e quello di trasgressione. Il che non è
stato necessariamente un male, almeno fino a quando una parte consistente della
società ha opposto il più ottuso immobilismo a qualsiasi ipotesi di
innovazione. Dunque, le Arti, nel loro opporsi al conservatorismo, si ponevano
in qualche modo come una forza fiancheggiatrice di una più vasta e profonda
domanda di libertà e di estensione dei diritti che promanava dalle forze
sociali.
Oggi, l'idea di trasgressione, ma anche lo
stesso concetto di progressione, riguardano, tutto al più, la sfera della
comunicazione e ancora più spesso, quella del gossip. Il cosiddetto progresso
si è rivelato una macchina prodigiosa per generare incubi e, di conseguenza,
l'insistenza, come puro rictus, pigrizia mentale, indisponibilità ad assumersi
la fatica di ripensare al proprio ruolo da parte degli operatori artistici ha
assunto un carattere oggettivamente sgradevole. La trasgressione, l'irrisione
del tradizionale, la voluttà del degrado sono diventate non solo socialmente
accettate, ma anche la condizione iniziale per sperare di essere presi in
considerazione dall'ingranaggio dei media culturali. Nel frattempo, le pretese
rivoluzionarie estese al sociale sono finite in soffitta e oggi si
“trasgredisce” con l'occhio fisso sui listini di mercato e, nel caso si
guadagni bene, s'investe off shore. Che meschina fine: da ingranaggi
immaginativi della macchina rivoluzionaria a semplici degenerati e, per di più,
religiosamente supini ai “mercati” e prudenzialmente attenti al politically
correct. Davvero non riesco a immaginare soggetti umani peggiori. I delinquenti
comuni e le puttane da strada credo siano enormemente più rispettabili.
Quindi, a mio avviso, l'avanguardia
artistica dovrebbe avere il coraggio di imboccare risolutamente la direzione
opposta e qualunque artista che tenga alla propria onorabilità dovrebbe
rifiutarsi di perpetuare questa farsa. Non c'è più alcuna rispettabilità
borghese da demolire, nessun accademismo ingessato, nessuna grettezza
conservatrice che cristallizza il gusto. Ciò che, invece, andrebbe
demistificato sono tutte quelle categorie del contemporaneo che alimentano
l'illusione della libertà, dell'apertura, dell'inclusione, del melting pot e di
tutte le altre stronzate. Il fatto che alcuni artisti siano liberi di irridere
tutto e tutti, di vituperare la religione (sempre la stessa, con le altre non
ci si provano), di inneggiare al trans-umano non significa affatto che i popoli
siano più liberi di prima. Anzi, è esattamente vero il contrario.
Abbiamo letto che pubblicherai il tuo primo
libro. Trattasi di un romanzo o di un saggio? Cosa puoi dirci in merito?
E' un romanzo, con un impianto molto
classico, addirittura riecheggiante i cicli epici. Ma, narrando vicende che
prendono le mosse dal contemporaneo, il principio di verosimiglianza mi ha
imposto di tratteggiare gli estremi di un intero mondo e, per quanto possibile,
di fornirne delle basi teoriche plausibili. Questo, inevitabilmente, ha finito
per produrre diversi capitoli ai limiti del saggistico, il che basterebbe a qualche,
eventuale, critico tradizionale per denunciarne l'ambiguità e l'ineleganza
formale. Potrei capirlo: la grande narrativa su cui ci si forma, quella di
impianto classico, ottocentesco, presuppone una netta distanza tra narratore e
cosa narrata, si muove in un mondo oggettivo di ambienti e figure dove il ruolo
del soggetto consiste in una serie di reazioni relative alle circostanze. In
questo senso le azioni sono conseguenti a ciò che i sentimenti dettano e tutto
è perfettamente oggettivato, i personaggi sono autonomi, la situazione
narrativa è ambientata scrupolosamente nel tempo e nello spazio. Il narratore,
dal canto suo, dovrebbe situarsi al di fuori della macchina narrativa o, al
massimo, affacciarsi nelle descrizioni o nelle riflessioni. Basti pensare che,
almeno per quanto riguarda la prosa italiana, uno dei moduli d'intervento
diretto ancor oggi più sfruttati e, in verità, di efficacia quasi infallibile
risale addirittura a Manzoni, con le sue ironico-garbate intrusioni riflessive.
Tutto questo ho voluto a tutti i costi
mantenerlo. Passate le mode dell'estremo rigore realistico, di stampo
militante, del soliloquio esistenziale e intimista, della prosa raggelata ai
limiti dell'afasia tanto cara all'intellighenzia radical-chic, alle fine, il
romanzo, come impianto letterario, è ancora quello di Balzac e Dostoevskij.
Solo che molti narratori contemporanei,
penso per esempio a Houellebecq o a Zinove'v, per non parlare di Foster Wallace
che era straripante o, al contrario, del molto più misurato, ma non meno
intrusivo Bolano, talvolta avvertono l'esigenza di scendere sul campo del loro
stesso narrato. Da dove nasce questa esigenza? A mio avviso dalla ritirata di
altri soggetti professionali. In altre parole il narratore tende a sostituirsi
parzialmente al saggista perché da tempo non si fida più dei linguaggi
“iniziatici” dei sociologi e degli economisti e, tantomeno, si fida degli
analisti di cronaca. Ogni qualvolta un narratore contemporaneo si ritrova a
dovere oggettivare la realtà, si ritrova a confidare unicamente in se stesso,
essendo queste categorie professionali largamente colluse con il mondo
dell'informazione e, di conseguenza, osservanti gli schemi narrativi del reale
dettati dagli apparati.
Penso, nel mio piccolo, di avere compiuto
un'operazione analoga: un romanzo d'impianto classico che, prendendo le mosse
dalla realtà, necessita, per oggettivarsi, di interpretazioni di questa realtà
che non siano quelle correnti e autorizzate. Con incursioni, qua e là, nella
narrativa di genere: horror, complottistica, spionistica e via dicendo: tengo
molto a rimarcare i miei gusti popolari, anche se si tratta di una dimensione
popolare di quarant'anni fa.
Canti “Invocare
il sipario è normale, se una farsa è durata abbastanza”, tuttavia,
nonostante la presa di consapevolezza, gli slanci reazionari non cessano mai,
neppure in una situazione a nostro avviso non raddrizzabile se non ripartendo
da un punto zero. Come vedi, al di là degli schieramenti politici, eventuali
nuovi movimenti d’azione? C’è, secondo te, qualcuno ad oggi in grado di avere
un minimo di chiarezza e profondità di vedute? Se non Italia, anche nel
restante occidente..
Dipende cosa intendiamo per occidente.
Anche il Brasile è occidente o il Venezuela. Il Sudafrica. C'è la Turchia che
è, a tutti gli effetti, un paese cerniera. E poi, la Russia che, comunque,
rientra nel mondo “bianco”. Poi ci sono i neo-occidentali, per trazione
socio-economica: la Cina, l'India, il solito Giappone che, presto o tardi,
presenterà il suo conto... In realtà, al di là di ciò che resta di
tradizionale, l'intero mondo, oggi, è tecnicamente “occidente”, se si eccettua
l'area islamica e neppure del tutto. E tutti, tranne noi europei e, in
particolare, gli italiani, hanno le idee chiarissime su chi sono e su dove
intendano andare. Innanzitutto verso una destinazione ormai vitale dal punto di
vista di tutti, ma che, per noi europei, o meglio per i politici che ci
rappresentano e per l'informazione che ci narra, non è neppure nominabile: un
mondo libero dall'egemonia di una superpotenza criminale, ossia gli USA. Dirò
di più: gli Stati Uniti sono attualmente oltre lo status di nazione canaglia:
sono un mostruoso conglomerato di tecnologia distruttiva, economia
delinquenziale e psicopatia collettiva. L'auto-percezione che questa nazione ha
di se stessa sembra uscita da un incubo e la sua classe dirigente è composta,
per lo più, da tarati psichici e da veri degenerati.
Tutti, dicasi tutti, sono consapevoli di
ciò e sanno che, presto o tardi, si arriverà al dunque. Il problema è tutto lì:
c'è un'evidenza colossale, mostruosa, immane come dieci catene dell'Himalaya
messe l'una sull'altra, ma in Europa non si può dire. O meglio, non si può dire
laddove servirebbe, ma quei contesti sono interamente occupati da gente che se
ne guarda bene, perché fa loro comodo così.
Quindi non uno di queste centinaia di
migliaia di parassiti che ci succhiano il midollo con il pretesto dell'Europa è
realmente interessato all'Europa. Se lo fosse direbbe la verità o, quantomeno,
consentirebbe ad altri di dirla. Invece siamo arrivati al punto che le agenzie
stampa falsificano deliberatamente le traduzioni degli interventi di capi di
stato alle Nazioni Unite o il testo dei comunicati ufficiali. Io, per sapere
cosa ha detto effettivamente Ahmadinejad in lingua Farsi, devo ricorrere alla
dissidenza in rete perché le agenzie di stampa occidentali forniscono
invariabilmente versioni di comodo.
Quindi, non solo non esiste altro progetto
politico in Europa che non sia il servaggio a Goldman-Sachs, al punto di far nominare
da loro direttamente i governi nazionali, ma è stata anche concepita una
macchina mostruosa per il controllo delle opinioni e l'occultamento della
verità. Anche gli altri europei non stanno poi messi meglio: i tedeschi, che
credono che i loro eventuali guai potrebbero derivare dalle “cicale
mediterranee” o dai quei poveri greci che tra poco saranno ridotti come il
Bangladesh degli anni '70, dimostrano di avere capito anche meno di noi.
Ma altrove, lo ripeto, non c'è tutta questa
disponibilità al nanismo politico e all'irrilevanza.
La Russia si avvia a tornare una
super-potenza e, a meno non vogliano arrischiare un conflitto nucleare, cosa
non del tutto esclusa visto il gran numero di talmudisti e cristiani rinati in
attesa dell'Armageddon che siede nel congresso americano, non c'è nulla che
possa impedirlo.
La Turchia, grazie a Erdogan, un vero
statista come qui, in mezzo alla marmaglia di ignoranti, plebei, mignotte e
subnormali da cui ci facciamo vessare, abbiamo dimenticato persino l'esistenza,
gioca sui più tavoli e persegue un disegno egemonico molto coerente, di stampo
neo-ottomano.
Il Brasile che, in capo a meno di vent'anni
sarà la seconda potenza economica mondiale, aggressivamente capitalista
all'esterno e lucidamente socialista e protezionistica all'interno, con la
finanza internazionale fuori dalle balle. Si potrebbe continuare. In realtà
tutti hanno un progetto, osservano un percorso di civiltà, rivendicano una
missione storica, tranne noi. L'unica speranza, che è poi quella che narro nel libro,
è che queste potenze emergenti diventino abbastanza forti e salde da passare
all'attacco e inizino a finanziare e a fornire supporto tecnologico a
organizzazioni di dissidenza interna, in Europa. Ma queste ultime, prima,
dovrebbero almeno esistere. La gente, esasperata, che vediamo scendere in
piazza non è un movimento e non risponde a un progetto. La disperazione, per
quanto degna di rispetto, non produce necessariamente un'Idea.
Cosa intendi esattamente quando parli di
“anacronismo attivo”?
Un tipo di società come questa deve, per
esistere, necessariamente scollegare le culture dalle proprie radici. Il
modello a cui tendono è quello dell'”umanaio globale”, fatto di masse in gran
parte inurbate in megalopoli, ridotte a vivere alla giornata in una sorta di
non-tempo, senza nozione dell'idea di comunità e senza memoria. Questo il
traguardo. Il passaggio, che è quello che stiamo vivendo, presuppone la
costruzione di una corrente d'opinione specifica, la quale, perseguendo scopi
poco confessabili, non è naturalmente identificata né, tantomeno, denominata.
Io l'ho definita “attualismo”. Si tratta, in sintesi, di estendere il
sentimento di “contemporaneità” fino a conglobare il senso stesso della Storia.
Detto così pare astrusissimo, ma, in realtà, è molto semplice. Se tu cessi di
sentirti parte del divenire di una comunità, l'ultimo, in ordine di tempo, dei
suoi prodotti, allora sei pronto a rimuovere anche i concetti cardine che ne
sono alla base e cioè quello di “comunità” e quello di “divenire”. Quindi, automaticamente,
cessi di reclamare i diritti che ne derivano. La tua unica cittadinanza diventa
di tipo temporale: vivi, come si dice, il “presente” e solo in esso riconosci
il senso del tuo pensare e del tuo agire. Fateci caso: specialmente tra i più
giovani è diffuso il pregiudizio che tutto ciò che non appartiene al “qui e
ora” sia “roba da vecchi”, verso la quale non è cool provare qualche
curiosità o rispetto. Anche nel ceto intellettuale, ormai, dare a qualcuno
dell'inattuale rappresenta un vero insulto, quasi gli avessi dato
dell'analfabeta o del figlio di puttana. Ovvio: l'inattualità, oggi, presuppone
tutta una serie di accidenti che l'intellettuale contemporaneo teme più della
peste: la scadenza del linguaggio, l'esilio dal novero delle menti “correttamente
orientate”, l'accusa di chiusura al mondo e di protezionismo culturale...
A mio avviso non solo occorre rivendicare
senza esitazioni e senza quel fare dimesso che assumono coloro che hanno
qualcosa di cui scusarsi il proprio orientamento inattuale, ma anche farsi
veicoli di propaganda culturale. Occorre, laddove si può, ridicolizzare,
mettere all'indice e manifestare disprezzo per taluni fondamenti del sentire
contemporaneo. Occorre irriderne certi valori e demistificarne i linguaggi.
Senza, però, scadere in un generico passatismo o farsi permeare da tentazioni
semplicemente reazionarie. Anacronismo attivo significa semplicemente
rifiutarsi di farsi ingabbiare in questo interminabile presente e di farsi
derubare, in un solo colpo, del passato e del futuro.
Per concludere, quali progetti futuri per
Ianva?
Non posso permettermi di indicare
tempistiche precise, ma sono al lavoro su un paio di nuovi spunti. Se non
arrivano idee ispirate non faccio nulla. Ma se l'idea arriva e ci convince,
faccio in modo che si concretizzi a ogni costo. Ci saranno, questo si, dei
concerti e qualche presentazione in occasione dell'uscita del libro, dopo
l'inverno. E' molto probabile qualche collaborazione con altre band che
stimiamo, in forme che stabiliremo col tempo. Le cose, comunque, si muovono. E'
il mondo, purtroppo, che ci precede sempre.
Grazie Mercy per il tempo dedicatoci, un
caro saluto.
Grazie a voi per l'interesse e un saluto a
tutti.