La proposta è una sintesi di diverse forme d’arte, li si è etichettati
spesso con il termine “teatro-musica”,
ma trattasi di una definizione riduttiva.
In occasione della recente uscita del loro
lavoro Phalène d’onyx, abbiamo avuto modo di discutere con il fondatore Saverio
Tesolato sulla quasi ventennale carriera della sua creatura artistica.
Ciao Saverio, benvenuto.
Complimenti per Phalène d’onyx, un’opera poetica di grande spessore. Stavamo
leggendo nel booklet la descrizione del concept. In merito scrivi:
“il fine ultimo del concept è di ridare
importanza all’amore poetico nel mondo odierno, schiavo della civiltà
consumistica e sempre più teatro di rapporti umani spesso destinati alla rovina
perché non sinceri e facilmente manipolabili, pronti a vacillare ai primi
condizionamenti esterni”.
Effettivamente le vostre tematiche paiono oggi anacronistiche,
ma sono fondamentali. L’amore è quella forza vitale che funge da tramite fra la
dimensione umana e quella sovrasensibile. Quanto è importante oggi trasmettere
l’importanza di tale energia vitale attraverso l’arte?
Se questi
temi possono apparire oggi anacronistici, evidentemente è perché si sono in
buona parte persi quei valori sostanziali sui quali una società culturalmente
evoluta dovrebbe invece fare perno. Da alcuni anni assisto al processo ininterrotto di
appiattimento culturale in questo disgraziato Paese. Ci si preoccupa tanto
della crisi economica senza considerare che la prima crisi è di matrice
culturale: penso che ci voglia un bel coraggio ad osare di mettere un così
massiccio freno allo sviluppo della cultura in questa Nazione.
Viviamo
in un Paese schiavo delle convenzioni e delle mode, dove chi detta le regole ha
la pesante abilità di riuscire a reggere la massa come il Supremo Burattinaio
che tiene appesi ai suoi fili i burattini, manipolandoli come più gli pare e
piace. Siamo ormai un popolo imbevuto di consumismo fino al midollo, rintronato
da tanta violenza subita in decenni di televisione commerciale, fatto di poveri
schiavi alla mercé del vile dio denaro. I primi bersagli di questa bieca e
perversa indottrinazione sono i più giovani, oggi spesso senza troppe vere
passioni, sempre più omologati e quasi sempre incapaci di rendersi conto del
bombardamento cui sono soggetti, e che li cerca come più recettivi soggetti. La
disgregazione della famiglia e con essa quella dei valori storici che essa,
volente o nolente, ha da sempre rappresentato ha senz’altro favorito il
germogliare di malsane abitudini nei giovani, come avvilente reazione alla loro
profonda solitudine e allo spaesamento in un mondo che sempre più li vuole
sfruttare senza offrire loro nemmeno un tornaconto in termini di futuro.
Lavorando
a quest’ultimo impegnativo progetto, la mia mente è più spesso arrivata a
pensare che, dopotutto, nonostante le difficoltà e le sofferenze a volte
pesanti e pericolose che anch’io ho trovato dinnanzi al mio cammino, ho avuto
una vita fortunata, la quale mi ha concesso soddisfazioni e la gioia, quanto
mai insperata, di un amore sincero e profondo. In un certo qual modo, Phalène d’onyx racconta proprio tutto
questo, narrando come da una condizione di sofferta chiusura e non-accettazione
dell’altro-da-sé, si possa arrivare a vivere l’esperienza dell’amore come
salvezza, ottenibile anche e soprattutto nella ritrovata capacità di donarsi
davvero all’altro. Viviamo in una società in cui il primato dell’individualismo
ha creato mostri sempre più algidi, in cui la saga surreale dei social network
ha promosso e promesso la santa illusione della comunicazione totale, in cui la
finzione regna sovrana in tutti i campi. Contro ogni moda o tendenza pseudomodernista,
senz’alcun timore di patire lo scontro, Phalène
d’onyx approda in questo calderone malsano e si propone come guerriero
pronto a lottare strenuamente contro il consumismo, il cui odierno trionfo
vorrebbe imporre a tutti noi comportamenti insulsi e figli di logiche non
esattamente degne di esseri umani. Il fatto che ci interessi la cultura, la tanto vituperata in questo Paese,
ha a che fare primariamente con l’insopprimibile necessità di vivere una vita
in qualche modo piena. Vogliamo vivere emozioni vere e non precotte o
stereotipate perché così ci hanno consigliato alla televisione, e la
sensibilità che chiediamo necessariamente al pubblico che si avvicina alla
nostra opera deriva da un vero desiderio di riscatto dalle convenzioni sociali
e quindi culturali inculcate da tanti modelli consumistici. L’Arte può pertanto avvicinarci
alla coscienza dell’Amore il quale, se vissuto quindi con la forza del
sentimento puro e mai superficiale, pronta a scardinare ogni istigazione di
matrice consumistica, può sconfiggere tale tendenza alla disgregazione e alla
passività.
Troviamo che la definizione di “teatro-musica” vi stia un po’
stretta, sei d’accordo? Come presenteresti il progetto Autunna et sa Rose a chi ancora non vi
conosce?
Autunna
et sa Rose nacque nell’autunno 1994 con il preciso intento di fondere i
linguaggi comuni di musica e poesia in una forma drammatizzata che permettesse
di dare compiuta espressione ai convulsi moti emotivi dello spirito. La musica ha in realtà fin dall’inizio asservito alla
funzione di "plasma emozionale", una sorta di contenitore
privilegiato di un coacervo di impulsi ed idee più spesso facenti riferimento
alla teatralizzazione "imposta" dai testi poetici, i quali hanno
quasi sempre rappresentato l’incipit
creativo fondamentale. In seguito anche diverse forme d’arte figurativa hanno non
a caso concorso a fornire idee, essendo nel contempo parte di quel coacervo,
vivendo cioè in associazione diretta con le forme d’arte sonora, quando non
anche con quelle visuali, nel momento in cui s’è deciso che la videoproduzione
poteva essere un campo assolutamente da coltivare (con il fine precipuo di
utilizzare strategicamente i video prodotti all’interno degli spettacoli).
Non
so a questo punto dire se la definizione sia da considerarsi restrittiva,
rimane il fatto che Autunna et sa Rose è a tutti gli effetti, anche e
soprattutto in virtù di ciò che è stato per esso prodotto fino ad oggi, un
progetto musical-teatrale. È appunto
la cosiddetta teatromusica quella sorta di combinazione artistica che rappresenta per noi la maniera in
sintesi più naturale ed al tempo stesso complessa ed elaborata per esprimere
compiutamente le emozioni che ci hanno da sempre formato e che intendiamo
trasmettere come contributo energetico fondamentale dello spirito. Questo
perché reputo che proprio il teatro incarni la sintesi vera di tutte le forme
d’arte, in un’ideale Gesamtkunstwerk (l’opera d’arte totale), che
rappresenta ancor oggi il nostro fine creativo: il fruitore viene infatti condotto a vivere una drammatizzazione
teatrale che, in forma per nulla snobistica, rappresenta invece il mezzo
principe per fare fuoriuscire le proprie ansie, le proprie gioie sepolte e
portarne a galla la forza in esse intrinseca e latente. Mettere in scena, a
nudo, il proprio cuore, in sostanza.
È evidente la vostra grande ammirazione per il teatro, definito da voi come
“summa
di tutte le arti”. Citate spesso Antonin
Artaud tra le vostre maggiori influenze. Artaud fu un personaggio controverso, il suo teatro aspirava
ad una liberazione totale dello “spirito”. Cosa pensate di questo autore?
Artaud…
Abbiamo aperto il nostro primo lavoro, Sous la robe bleue, con il brano L’Art
et la Mort
il cui testo fu tratto dal suo omonimo lavoro del 1929. Il nostro esordio
discografico è datato 4 settembre 1996 - per un puro e fortuito caso -
centenario della nascita di Antonin Artaud (in pratica la cosa fu da me
scoperta solo in seguito...). Se fosse destino non so, certo fu una
“rivelazione”, per così dire, che un anno prima avessi recuperato quello
scritto che Artaud aveva allegato a margine della raccolta L’Art et la Mort , ed avessi deciso,
così, impulsivamente direi, di musicarlo... Che dire a proposito dell’influenza
che egli mi ha sempre dato? La prefazione al primo suo libro che lessi
cominciava così: “Quando si è letto Artaud, non ci si riprende. I suoi testi
sono di quelli, molto rari, che possono indirizzare tutta una vita, influire
direttamente o indirettamente sul modo di sentire e di pensare, di regolare un
comportamento sovversivo attraverso ogni tipo di sentimento, di pregiudizio e
tabù i quali, nella nostra “cultura”, contribuiscono a frenare e pure a fermare
uno slancio fondamentale”.
È proprio lo
slancio fondamentale che può condurre alla liberazione totale dello
spirito, fuori da qualsivoglia schema precostituito e convenzionale. Quelle poche
righe testimoniano oggi in maniera ineccepibile la ragione per cui il progetto
Autunna et sa Rose ha avuto la forza di continuare nonostante le innumerevoli
difficoltà trovate, non soltanto in termini economici, ma pure nel riscontro e
nell’interesse vero del pubblico. Artaud non può essere oggi visto né come
poeta, né come scrittore, né come attore, né come regista, ma forse come tutte
queste cose insieme e forse il contrario di tutte: di certo è stato un uomo che
ha cercato di sfuggire a ciascuna di queste definizioni e, forse proprio per
questo motivo, ha incontrato la più grande repressione possibile. Tuttavia ha
avuto la forza di continuare, e non senza difficoltà e rischi per la vita,
tanto che fu internato per dieci anni in un manicomio giacché ritenuto pazzo
dalle autorità francesi dell’epoca che giudicavano i suoi scritti “malati”.
Credo che donare la propria vita all’arte, per quanto possa oggi sembrare
“anacronistico”, sia segno di forza di spirito, e se davvero Autunna et sa Rose
fosse nato sotto la “protezione” spirituale di Artaud, credo non si fermerà
dinnanzi a nulla e nessuno. Non abbiamo mai accettato di tenere a freno quello
slancio fondamentale che ci ha spinto ad operare sacrifici che magari a
molte persone parranno pura follia, ma che noi eravamo “obbligati” a compiere
in virtù di una necessità quasi rituale (in effetti, è l’istinto del sacrum
facere, del fare qualcosa che sia sacro per sé, per la propria vita, che
vince ogni freno...); tanto che, ogni qual volta si profilava la prospettiva di
un compromesso, potevano sorgere situazioni pericolose, o comunque
dissocianti...
Ci sono
infatti motivi profondi se ogni nostra rappresentazione live deve
iniziare con il brano L’Art et la Mort. Un inizio che pare allo stesso tempo una fine, di
questo sono cosciente e penso che l’effetto che ha sempre avuto sul pubblico
possa essere stato quasi sempre una sorta di straniamento, come entrare in un microcosmo
nel quale ogni emozione, ogni sensazione ha il diritto di essere amplificata:
questo, oggi, deve essere per me il teatro della crudeltà...
Tornando sempre ad Artaud, egli, perseguendo alcuni aspetti del teatro
surrealista di Alfred Jarry, cominciò un discorso di distruzione del
linguaggio, contro la scrittura di scena. Dopo la sua morte nel nostro paese è
apparso Carmelo Bene che ha proseguito sulla sua stessa linea. Quanto c’è di
Alfred Jarry e di Carmelo Bene nella vostra formazione artistico/culturale?
La
mia ammirazione per Bene è da sempre altissima: ha rappresentato un modello di
vita per il e nel teatro, il più
grande e unico vero attore - nel
senso di colui che agisce in maniera
piena sulla propria presenza e sul lavoro che va a metter in scena - italiano,
una figura che oggi manca a noi tutti ineluttabilmente. Per svariate ragioni
egli fu considerato epigono di Artaud, di certo nella misura in cui, in
riferimento a quanto affermi, operò una “distruzione” affine a quella
artaudiana, ma che puntava più specificamente alla deformazione dell’espressione verbale, a quella sagace e quasi
perversa operazione, che l’ha reso non per nulla celebre, sulla phonè: un processo che aveva a che
vedere in misura determinante con l’aspetto sonoro e quindi musicale - non per
nulla era un grande conoscitore di musica - della funzione dell’attore. Ricordo
gli anni di gioventù nei quali la televisione di Stato - e, in seguito, nel
corso degli anni novanta, anche quella commerciale, concedendogli spazio
all’interno di storici talk-show -
trasmetteva opere teatrali e contributi vari di Bene (addirittura, pensando ad
oggi, il suo Macbeth in prima
serata…): fu quello certamente un modo di crescere culturalmente bene, o
meglio, Bene (gioco di parole quanto
mai azzeccato, direi!)…
Torniamo a Phalène d’onyx, è sorprendente l’alchimia che si viene a creare tra
le quindici poesie con le “immagini sonore” che si formano durante
l’ascolto. In che modo avete lavorato nella creazione di questo concept? Dai vostri appunti sulle composizioni si
evince un grande lavoro sui dettagli, sulle armonie e sulla metrica..
Tutto iniziò
attorno ai mesi di quel magico autunno 2004, allorché presero forma le prime embrionali idee riguardo
al concept: In quel periodo erano
state da me già scritte alcune poesie senza che vi fosse stato in realtà alcun
secondo fine, tanto meno quello di realizzare questo progetto, nella maniera composita in cui è stato poi
concepito. Dopo alcuni mesi, in seguito ad un’approfondita analisi testuale, fu
chiaro come, per la loro musicalità profonda, a livello linguistico come pure
in virtù delle evocazioni cromatiche che vari testi lasciavano trasparire,
avesse pienamente senso costruire attorno ad alcune di queste, accuratamente
selezionate, altrettante composizioni musicali, ogni volta elaborando nuove
strategie, tutte comunque conformi all’obiettivo primario di trasporre il testo
in musica.
All’epoca
solo una composizione era tuttavia stata già scritta, vale a dire quella Seele
im Spielkartenschloss (Anima
nel castello di carte) la quale funse proprio da punto di partenza, da incipit
di un ideale percorso che fino allora era tuttavia evidentemente immerso in una
fitta nebbia che si sarebbe dissolta gradualmente soltanto qualche anno dopo.
Infatti fu appena ad aprile 2007, quando cominciai ad elaborare le idee per Fruscii di sognata libertà… per
clarinetto, percussioni e suoni elettronici - la composizione del quale brano
tuttavia fu terminata nel maggio dell’anno successivo, dopo una lunga
interruzione -, che iniziò a diradarsi nella mia mente quell’atmosfera plumbea
e compresi come avrei dovuto tessere da lì in poi la tela dell’intero progetto.
Si trattava
chiaramente di un lavoro che stava assumendo una connotazione piuttosto ricercata ed ambiziosa, da
realizzarsi compiutamente in tempi certamente non brevi: la fase di composizione delle musiche si estese infatti
nel corso di alcuni anni, fino alla primavera 2010. Decisi tuttavia di iniziare le
registrazioni a fine settembre 2008, quando ancora mancavano varie composizioni
da scrivere: preferii procedere in questa maniera, perché così ero in grado di
lavorare alla composizione dei brani rimanenti tra una sessione in studio di
registrazione e l’altra e mentre già avevo consegnato i vari spartiti ai
musicisti che volta per volta avrebbero interpretato i pezzi già scritti, e che
dovevano perciò avere il tempo di studiare le rispettive parti. Nel corso
dell’estate 2010, terminate le ultime sessioni di registrazione, mi misi a
lavorare sulla grafica preparando otto progetti per relative immagini connesse
alle composizioni portanti, le quali nell’intento sarebbero servite da ideale
completamento di un trittico espressivo, vero oggetto dell’opera nel suo
insieme organico: tutto quanto entra infatti in simbiosi con le immagini,
pronte ad offrire una visione
privilegiata della musica e delle parole, ovvero create con l’effettivo fine di
traslare il pensiero in una dimensione parallela, altra, ma possibilmente in
sintonia con l’interiorità, con la vita spirituale di chi ascolta, legge e
guarda.
Dal punto di
vista squisitamente compositivo, le diverse strategie vennero da me elaborate
in conseguenza alla progressiva selezione effettuata sull’insieme di poesie
preesistenti, ogni volta seguendo tecniche e procedure diverse in relazione
alle differenti caratteristiche di intrinseca musicalità che man mano
emergevano dalle poesie stesse. Alla pagina www.ederdisia.com/pdo.html
sono disponibili alcuni link a documenti scaricabili, contenenti informazioni
specifiche sulle composizioni portanti, oltre a dettagli tecnici più
approfonditi che illustrano le diverse strategie compositive.
Nello split con gli Ataraxia compare per la prima volta la
splendida voce di Sonia Visentin. Quanto è importante il suo apporto come
soprano?
Sonia è oggi a tutti gli effetti
uno dei più talentuosi soprani di coloratura del mondo, con un’estensione
davvero superba ed unica, in grado di produrre note sovracute con una tecnica e
nel contempo una naturalità impressionanti. Dopo quasi dieci anni, credo di
poter orgogliosamente affermare che il nostro sodalizio artistico rappresenta una vera sicurezza, di conseguenza il suo
contributo in termini qualitativi è in costante aumento grazie anche alle sue
innegabili doti e in generale alla sua esperienza nell’ambito della musica
contemporanea: posso
oramai dire di conoscere la sua voce in praticamente tutte le sfumature, anche
perché costantemente, nei limiti del possibile, la seguo anche in occasione di
rappresentazioni di opere di musica contemporanea o concerti di compositori con
cui solitamente collabora (tra tutti Guarnieri ed Ambrosini). Pertanto sono arrivato oggi a strutturare in partenza
le mie composizioni in modo da sfruttare al meglio le notevoli risorse di
Sonia, conscio cioè che ogni nota che vado a scrivere per lei sul rigo avrà
l'effetto da me desiderato, in sostanza come già fin dall'inizio “udito nel mio
cervello”.
Nel precedente L’Art et la Mort avete destrutturato due
grandissimi pezzi come “Ostia (The Death of Pasolini)” dei Coil e “Leben-Tod” dei Laibach. Come nacque l’idea?
Per L’Art
et la Mort la
scelta di questi pezzi ha fatto parte di una collezione di brani di artisti di
un recente passato, perlopiù di genere wave-gothic/industrial, distillati
attraverso un processo di destrutturazione di stampo cubista: come in un quadro
di Braque i brani originali sono stati fatti a “pezzettini”, tessere di un puzzle
ulteriormente tagliuzzate, contaminate e sbrindellate, ogni volta in base a
parametri diversi, per poi essere ricomposti con esiti spesso sconvolgenti.
In ogni
caso, la scelta della totalità dei brani de L’Art et la Mort è stata condizionata
dal fatto di averne una precisa conoscenza: per ciascun brano l’interesse
primario è stato rivolto anzitutto nei confronti dell’opera, come
dissociata in verità dal proprio autore. Una figura che, al mondo d’oggi, è purtroppo
arrivata ad acquisire eccessiva importanza, al punto di generare situazioni
paradossali, come quelle riguardanti alcuni musicisti che si sentono più
corrisposti nel proporre soltanto brani altrui, specificandone sempre bene
l’autore e facendo l’impossibile per assomigliare a questo, in un’assurda
ricerca di spersonalizzazione creativa la quale ha come unico fine il riuscire
a clonare il successo dell’altro: vedi l’ancor oggi dilagante fenomeno
delle cover-bands.
Per questa
operazione di destrutturazione musicale non è stato mai sufficiente cambiare
soltanto il testo dei brani, né tanto meno utilizzare strumenti diversi da
quegli adoperati in origine dai loro autori: la partitura è stata infatti
sempre stravolta e talvolta solo alcune battute si sono conservate, spesso
relative alla parte di strumenti che non eseguivano melodie portanti; si è
inoltre sempre arrivati a decontestualizzare l’opera prelevandone una cellula
che poi ha finito per generare soluzioni diverse, magari poi anche
“scontrandosi”, in momenti inaspettati, con altre cellule, per dar vita a un groviglio
completo e necessariamente complesso.
La
destrutturazione è stata soltanto un mezzo, uno strumento formale, se vogliamo,
il cui rivoluzionario fine si configura nell’ironia come atto di acquisito
snaturamento, di perdita dell’identità e quindi dell’identificazione di
un oggetto (sonoro), che ne rende la forma ai più irriconoscibile. A tal
livello anche la sostanza muta, e ne è prova il fatto stesso di avere prelevato
scritti di autori letterari ben più anziani, con l’intimo fine di comunicare
qualcosa di specifico e di diverso dallo spirito originale dei brani, oltre che
di stabilire un “ponte” tra le epoche, che dia in un certo qual senso l’idea
dell’atemporalità dell’Arte. Si potrebbe quasi dire che la scelta di quei brani
sia stata una sorta di pretesto per comunicare qualcosa d’altro, che io
ho preteso di tirare fuori dalle spire del Tempo, ed anche la scelta degli
estratti letterari non è affatto casuale, bensì intende legare idee e afflati
di menti illustri e sublimi spiriti del passato distanti tra loro, nel tempo e
anche dal punto di vista della formazione culturale.
Evidentemente
nel caso di Ostia non potevo che
accostarvi una poesia di Pier Paolo Pasolini:
uno scritto profetico, perché emergono chiare dalle pieghe dei disincantati
versi dei colui che è stato, a mio parere, il più grande intellettuale italiano
della seconda metà del Novecento, le prime avvisaglie dell’arrivo di una fine
precoce dell’esistenza, come se in verità egli sentisse attorno a sé il male profondo
e “ramificato” che, sebbene in circostanze tuttora rimaste oscure, lo trascinò
verso una morte violenta. Come a chiudere un immaginario cerchio, nell’ottica
della condivisione di idee a distanza di epoche della Storia, pare
incredibile come di recente siano scomparsi anche gli stessi Balance e
Christopherson, quasi chiusi in un medesimo destino.
Per quanto riguarda invece
il brano della band slovena, l’idea, suggerita dal particolare titolo del
pezzo, prese il via originariamente dalla composizione di Leben-Tod
(Spiralemusik)
come allegoria della dualistica immagine della spirale del
pittore-architetto austriaco Hundertwasser, forma che egli considerava come vero trait
d'union tra la vita e la morte, potendo essa dare espressione a tutta la Natura , all'intera
creazione.
Neue Wirklicheit è
nata pertanto come “seconda cover”, riprendendo un riff di chitarra distorta
dell’originale e adattandola al violino, aggiungendovi poi un contrappunto di violoncello.
Non è stato in realtà necessario scavare in strutture musicali peraltro scarne:
l’armonia è stata rivista quasi per intero e si è scelto di inserire una base
ritmica elettronica molto meno “cattiva” e quasi irridente, privilegiando
quindi un taglio chiaramente ironico e magari kitsch, ipercromatico proprio
come i dipinti di Hundertwasser. Nei
suoi lavori egli ci ha raccontato favole moderne, non come quelle che sentivamo
da piccoli, ma qualcosa di fantasticamente zampillante dal nostro subconscio,
come di colpo risvegliato dal piattume della vita quotidiana e dal
grigiore dell’ipocrisia metropolitana delle città in cui viviamo. Hundertwasser
credeva infatti ad un’esistenza dopo la morte ed ha cercato di farci capire
come solo grazie ad un buon rapporto con la Natura siamo in grado anche di comunicare con i
nostri avi, perché sono proprio le loro anime “sepolte” in terra che sono
capaci di dare vita e vigore ai fiori e agli alberi, questi ultimi veri e
propri “doppi” degli uomini, secondo il genio austriaco.
Anche il campo letterario ha una funzione importante nella
vostra arte. Quali sono i letterati che più vi hanno influenzato negli anni?
Artaud, Baudelaire, Camus, Cocteau,
Laforgue, Apollinaire, Kafka, D’Annunzio, Hofmannsthal, Bergman, Wenders, Pasolini,
Kandinskij, Kokoschka, Poe, Duchamp.
Qual è il vostro
rapporto con la settima arte? Dai vostri esordi emerge il simbolismo del
polacco Kieslowski, il grandissimo regista del Decalogo. Il cinema europeo tuttavia
negli ultimi anni è stato quasi soppiantato qualitativamente dai film che
giungono dall’oriente, Corea e Giappone. Sei d’accordo?
In
effetti non soltanto il teatro (visto quasi più come “contenitore” e punto di
arrivo, che come pozzo dal quale trarre
specifici riferimenti), ma più spesso la letteratura e ancor più il cinema,
sono sempre stati per noi fonti di ispirazione determinanti per la nostra
ricerca. Certamente la scelta di esserci presentati e caratterizzati fin
dall’esordio con un
lavoro che in copertina aveva un fotogramma tratto dal film La doppia vita
di Veronica di Kieslowski, dimostra che abbiamo sempre prediletto forme d’arte visuale nelle quali cinema e teatro s’intersecano o a volte addirittura
s’identificano: il cinema è in un certo qual senso più “artificioso”, in quanto
arte costruita, che non ha di solito il dono della contemporaneità espressiva.
In entrambe le forme d’arte - e perché no, anche nella musica! - la poesia come
mezzo espressivo può e dovrebbe ancor oggi giocare un ruolo determinante,
intesa sia nella sua forma tipicamente letteraria, che nella raffigurazione
visiva di scene, in termini della grafica o dell’uso strategico delle immagini
in generale. Per questo motivo e su questa linea artistica ho iniziato da
alcuni anni a coltivare, oltre alla grafica, anche la videoproduzione, vista come
elemento “collante” delle varie istanze espressive.
Per quanto
riguarda la questione del cinema dell’Estremo Oriente, non è da escludere che,
a partire già da una ventina d’anni, motivi di carattere politico abbiano
condotto varie giurie di festival europei - e molto spesso proprio di casa
nostra - a puntare su cineasti asiatici, comunque, a mio avviso, di grande
valore (tra questi anche, ad esempio, Kiarostami, che, non a caso, è iraniano);
tuttavia, credo sia improprio l’aggettivo “soppiantato”, in quanto il cinema
europeo ha ancora oggi una dimensione di notevole rilevanza qualitativa, tanto
che nei festival europei le pellicole continentali ancora hanno un consistente
spazio e una considerazione generalmente degna di nota.
Ci sono possibilità di vedervi inscenare le vostre rappresentazioni
teatrali in Italia? Che tipo di difficoltà incontrate nel proporvi?
Da anni
dobbiamo lottare contro un sempre più dilagante immobilismo, che vincola gli
organizzatori, in Italia come spesso pure all’estero, ad una mentalità
ristretta e culturalmente arretrata, quando si tratta di accogliere e quindi proporre
qualcosa di “nuovo”. C’è inoltre da considerare il fatto che ormai risulta
chiaro che il nostro stile regge decisamente meglio una situazione dal vivo
necessariamente legata ad un ambiente teatrale, anche pensando al genere di
pubblico destinato ad affacciarsi al progetto. Per cui siamo sempre in cerca di
ambienti il più possibile particolari, se non esattamente teatri, comunque
spazi interdisciplinari adeguati al caso (quindi di certo non pub, birrerie,
ecc.), oppure chiese sconsacrate, sale polivalenti, interni per mostre d’arte
figurativa, ecc. La cosa chiaramente crea un ulteriore vincolo, ma è d’altro
canto evidente come uno spettacolo di Autunna et sa Rose non sia comodamente fruibile
in un ambiente troppo diverso.
In ogni
caso, resta il limite principale dell’immobilismo della maggior parte degli
organizzatori, causa del quale è la mancanza di una mentalità aperta a
sufficienza per capire che le idee nuove vanno battute, da parte di chi
dovrebbe nel nostro Paese sbattersi per la cultura, per le idee e le proposte
nuove, ed invece spende le risorse disponibili sempre per le stesse cose, andando
in cerca solo di chi è bravo ad imitare gli altri... Specie in Italia, nessuno
è più disposto a rischiare, magari ti promettono o si mostrano inizialmente interessati,
poi quando è ora di passare ai fatti si tirano indietro, e non sempre per un
fattore meramente economico, ma per paura di proporre qualcosa di “troppo strano”,
di “ostico”, di “inadatto” al pubblico, abituato invece a spettacoli d’altro
genere… E propongono così, rispettando alla lettera la regola delle lobby, le loro mafiose cose con l’illusione
che possano portare loro lauti guadagni e lustro all’immagine delle istituzioni
coinvolte, perseguendo con sempre maggiore ostinazione e con tanto di
“paraocchi” la politica (è il caso di dirlo...) dei “nomi grossi”...
Chiaramente,
come da costume tipicamente italiano, devi essere figlio di, nipote
di, eccetera. E, d’altro canto, come chiusura del circolo (vizioso), se non
puoi vantare una seppur minima dose di popolarità, al giorno d’oggi non sei
nessuno, non hai quasi speranze nel momento in cui ti vai a rivolgere presso
organizzatori di eventi, assessori e compagnia bella... Oggi, tra l’altro, con
la diffusione delle e-mail, è divenuta dilagante anche la moda di non
rispondere affatto alle comunicazioni (in forma elettronica, ma anche fisicamente
scritta…), specie se indirizzate con l’interesse di proporre idee le quali,
evidentemente, mettono in crisi a tal punto da inibire il destinatario da
qualunque tipo di risposta…
Torniamo indietro di qualche anno e parliamo di Sturm, un altro concept album davvero interessante. Il percorso
interiore del protagonista sfocia nel finale in una riconciliazione dell’uomo
con l’unità indivisa dell’universo. Come nacque quell’opera e qual è il tuo
rapporto con la spiritualità?
Sturm è il titolo dell’omonima opera di teatromusica,
la cui sceneggiatura
fu completata all’inizio del 2003, dopo che il disco era già uscito quasi un
anno prima. Tutto iniziò nell’estate 1999, subito dopo avere terminato un intenso
laboratorio teatrale, che ritengo essere stato fondamentale per la mia crescita
artistica oltre che spirituale. In quel periodo, dopo avere vissuto alcune traversie
con la difficile situazione dell’ensemble, iniziai a scrivere la sceneggiatura
per un’opera di teatromusica che, dovendo nell’idea di base fare riferimento ad
alcuni anni della mia vita, fu dall’inizio progettata a partire da certi miei
vecchi scritti. La sua stesura, all’interno della quale stavano intanto
prendendo forma concreta anche le composizioni musicali, fu poi a più riprese
interrotta fino al dicembre 2000, periodo in cui cominciai a capire una serie
di cose riguardo al significato d’insieme che il lavoro avrebbe dovuto avere: l’opera fu infatti concepita come
una sorta di compenetrazione fra teatro e musica, in cui le scene dovevano
essere inframmezzate da momenti strettamente musicali nei quali il protagonista
poteva suonare, recitare, oppure essere accompagnato dall’orchestra. Pertanto
la storia prese piede nella mia mente in maniera graduale, pur essendo io
evidentemente conscio fin dall’inizio di ciò che volevo comunicare e che aveva
fatto parte di anni importanti della mia vita interiore; non per nulla, anche i
brani musicali vennero da me composti in alternanza ed in relazione ai diversi momenti
che si susseguivano all’interno della storia stessa.
L’opera
si conclude con un ricongiungimento cosmico
del protagonista con le forze primordiali dell’Universo, a tutti gli effetti
“al di là del tempo”: questo traguardo ultimo, più che permettere all’uomo un
rapporto con forze sovrannaturali, gli ribadisce il valore di una vera
comunicazione con il Cosmo, in una ricerca di Armonia superiore che nella sua
sostanza non ha nulla di ultramateriale. Credo che questo mio interesse per la
cosmologia sia legato all’esigenza vitale di cercare un senso dell’esistenza
dell’uomo nell’Universo: in quanto elemento di un Tutto in evoluzione continua
e imperitura, con il quale deve potere vivere in armonia, egli ha bisogno di
ritrovare il rispetto verso ogni sua piccola componente, da cui nasce
l’importanza di un sentimento ecologista, come infatti rivendicato da Hundertwasser.
La
spiritualità è pertanto presente all’interno della Natura, le anime ci
circondano e ci guidano, se abbiamo la forza di ascoltarle: non a caso, una
delle cardinali fonti d’ispirazione dello Sturm
fu il film di Wenders del 1987 Il cielo
sopra Berlino, giunta nell’esatto momento in cui la storia richiedeva che
il protagonista subisse l’abbandono della propria amata, e che condusse
all’idea di realizzare per tale momento la cover stravolta del brano Some Guys
di Tuxedomoon (nelle prime sequenze del film, infatti, l’angelo vola tra i
palazzi berlinesi, entrando, attraverso una finestra aperta, in un appartamento
nel quale una radio diffonde il suddetto brano). Vale comunque la pena di
rammentare che quel film resta ad oggi uno dei più luminosi esempi di vera e
vivida poesia nella storia della sceneggiatura cinematografica e mette apertamente
di fronte lo spettatore alla necessità di un’indagine profonda del proprio
spirito, del senso vero dell’esistenza. A poco più di vent’anni - ricorderò
sempre la mia prima visione, nel novembre 1989, a pochi giorni dalla
caduta del Muro - è un film che ti cambia la vita, se non altro la orienta
verso una direzione che di lì a pochi anni si sarebbe rivelata in misura sempre
più inequivocabilmente definita…
In merito alla struttura poetica di Phalène d’onyx, ci è venuta in mente una considerazione di Jean
Cocteau:
“La tragedia
peggiore per un poeta è essere ammirato attraverso una scorretta
interpretazione.”
Cosa ne pensi?
Evidentemente,
conoscendo il personaggio, Cocteau aveva vissuto sulla propria pelle tale
tragedia. Mi viene necessariamente da pensare che abbiate collegato questa
frase alla citazione che ho riportato all’interno dei documenti relativi alle
composizioni portanti di Phalène d’onyx: essa è tratta
dal suo film del 1959 Le
testament d’Orphée, ou Ne me demandez pas pourquoi,
ultimo capitolo della trilogia sulla figura del poeta. La citazione ha un
chiaro sapore provocatorio, in quanto configura il poeta come destinato al
quasi totale isolamento ed altresì costretto a “esibire la sua anima nuda davanti ai ciechi”. La mia istanza
provocatoria, conseguenza, come nel caso di Cocteau, dell’esperienza di vita e
della raggiunta coscienza dell’isolamento sopra riferito, intende tuttavia
scuotere gli animi sensibili e condurre verso una ricerca vitale di altri compatrioti: ecco il motivo per il
quale, a differenza di tanti compositori di oggi, generalmente di formazione
accademica, ho deciso di spiegare la
mia musica, con tutte le connotazioni poetiche in essa contenute, dato lo
stretto legame con la componente testuale che l’ha di fatto generata. Infatti i
vari documenti prodotti sono tutti divisi in due sezioni: la prima è
focalizzata sul tema di ogni singola composizione, ed è pronta quindi ad
illustrare i significati meno evidenti e le connessioni nascoste dietro i
testi; l’altra contiene un’analisi della struttura squisitamente musicale, con
tanto di spiegazione delle tecniche compositive impiegate (utile a chi intende
giungere ad un approfondimento se vogliamo viscerale, o magari anche
semplicemente per coloro i quali - armati della necessaria pazienza - vorranno
capire davvero il perché di tante scelte da me operate).
Ora,
che tutto ciò possa necessariamente evitare la suddetta tragedia, non ci è purtroppo garantito. È però, credo, importante
ricercare la comunicazione con ogni
mezzo, offrendo il fianco ad ogni opportunità di discussione ed analisi: è, non
per nulla, il motivo per il quale siamo qui ora, dentro un’intervista, che negli intenti di noi tutti deve pervenire
ad un insieme di lettori/fruitori nei quali ricerchiamo una dose di sensibilità
che li conduca ad un’interpretazione, comunque personale, ma se possibile non
scorretta.
Grazie Saverio per la cordiale chiacchierata sul vostro elegante
progetto artistico, a te l’ultima parola.
Tornando
(volentieri) a Cocteau, credo che per quanto la lingua del poeta sia fatta di
parole che pochi parlano e pochi ascoltano, non se ne debba per forza eclissare
l’esistenza. Evidentemente stiamo vivendo un‘epoca di enorme decadenza
culturale, e gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, specie di quelli degli
uomini di cultura che si ritrovano costretti a fare ovvi confronti con i
decenni passati. Tuttavia, la mia personale impressione è che oggi si sia
sviluppata la marcata tendenza a VOLER essere ignoranti, ad allontanarsi
intenzionalmente dalle fonti di rinnovato interesse culturale, obbedendo
passivamente ai dettami imposti da qualcosa di molto simile al Big Brother orwelliano (o forse parente più
stretto della sovrastruttura di regime descritta da Bradbury in Fahrenheit 451), magari più sottilmente
subdolo.
Se i miei
lavori sono “di nicchia” è perché, in misura sempre maggiore a partire da
questi ultimi lustri, si sta diffondendo la tendenza alle emozioni da
ipermercato: la gente pare non sia più in grado di avere un giusto
approccio all’atteggiamento riflessivo, si rifiuta quasi di pensare,
arriva a casa la sera e non ha voglia di roba complicata, di sentire la
poesia in un disco o in un film, è stressata, vuole rilassarsi e non scervellarsi di fronte ad un lavoro in cui c’è troppo
da capire… Alla luce di ciò mi viene da vomitare a pensare a tutti coloro
che ci hanno etichettati come “snob”, “(troppo) intellettuali”, eccetera.
Autunna et
sa Rose ha da sempre mirato ad una reazione di almeno una “frangia” di
persone, le quali non si accontentino più delle loro presunte sicurezze, basate
sulla logica del supermarket e dei “consigli” televisivi, ma decidano una volta
per tutte di ricercare, di non fermarsi alle comode apparenze della
quotidianità, accettando di mettersi in discussione e di affrontare percorsi
anche accidentati, pur di scoprire. Il mio desiderio sarebbe in ogni
caso di potere espandere, pur con gli evidenti limiti del caso, questo nucleo
di fruitori.
In alcuni
spettacoli di qualche anno fa creai un’allegoria che mi auguro abbia fatto
riflettere il pubblico presente: ho chiesto all’audience cosa farebbe se, trovandosi
in uno sterminato campo pieno di sterpaglie ed erbacce rinsecchite, scorgesse
in lontananza una montagna isolata e ripida, sulla cui cima si intravedesse un
giardino tanto lussureggiante - certamente luogo di sogno con piante rarissime -
quanto assai duro da raggiungere, a causa del percorso irto ed accidentato da
compiere per salirvi. Cosa fare? Arrampicarsi improvvisandosi novelli scalatori
su pareti impervie, oppure… “Cosa fareste voi?” - chiesi al pubblico. “Io -
dissi loro - sono già salito. Ci ho provato, commettendo forse errori di vario
genere, sentendo spesso la fatica piombare come un macigno pronto a rotolarti
addosso da dietro, con la continua paura di cedere: ma ho visto, e bene, il
giardino incantato, anche se per pochi istanti. E posso dire che ne valeva la
pena, tanto che sono pronto a risalire, anzi, sono continuamente in salita,
continuamente nel tentativo di guadagnare metri per giungere al giardino e
potervi metter piede ancora, anche se per pochissimo tempo”.