Calvaire, metafore tra Kafka e Delvaux

 

Calvaire è il titolo dell'esordio registico del belga Fabrice Du Welz.

La trama vede un cantante girovago esibirsi in ospizi e piccoli locali, fino a che un giorno il suo furgone si pianta in mezzo ad una foresta per via di un temporale. Egli si ritroverà nei pressi di una locanda sperduta in un paesino abbandonato, qui farà la conoscenza del signor Bartel, in apparenza un uomo gentile ed ospitale che gli fornisce vitto e alloggio, ma che poi nella realtà si dimostrerà un folle..

Dopo aver visto Calvaire i primi accostamenti che vengono in mente sono André Delvaux, Franz Kafka, John Boorman, Gaspar Noè e Tobe Hooper.
Si perché nella pellicola di Du Welz spiccano le sensazioni di impotenza di Marc (il protagonista) una volta entrato nel vortice psichico del signor Bartel, le ambientazioni sporche, la regia virtuosa e la fotografia psichedelica.

Welz trascina lo spettatore in una ossessiva storia di paranoia e solitudine, in cui la vittima diviene a poco a poco un mero oggetto sessuale conteso fra differenti uomini.
Il protagonista viene privato di ogni dignità, la comunicazione coi carnefici risulta impossibile, essi sono accecati dagli istinti sessuali più compulsivi dovuti alla mancanza del femminile e Bartel costringerà Marc ad incarnare i panni dell'amata e odiata Gloria, la sua ex consorte.
Tuttavia le "torture" e le scene violente non la fanno da padrone, perché Calvaire non bada all' estetica del cruento bensì mette al centro la violenza psicologica, il calvario di un essere umano che crolla in un microcosmo in cui il muro dell' incomunicabilità è invalicabile e la donna è scomparsa.

Difatti il fulcro del film è proprio la totale assenza di figure femminili, vi è un uomo vittima fra gli uomini, il maschio viene umiliato e violentato, in un paese dove l'assenza di donne funge da metafora della sempre più rara femminilità nel mondo, quasi sempre ridotta ad ammicchi sessuali e scimmiottamenti mascolini in nome di una grottesca idea di parità dei sessi.

Mr. Bartel (un magnifico Jackie Berroyer) simboleggia la solitudine del misantropo rinchiuso nei suoi schemi mentali, che causa fallimenti amorosi perde la percezione del reale sprofondando nel delirio ed i suoi compaesani sono le sue stesse ombre, spinti dai medesimi impulsi.

Ad una prima parte statica e descrittiva, Du Welz contrappone nella seconda metà un montaggio dinamico, con inquadrature sfuggenti, strepitosi piani sequenza, zoommate e frequenti soggettive.
La fotografia plumbea di Benoît Debie è poi l'elemento che dà l'apporto fondamentale alla riuscita dell'opera.
Debie risulta in perfetta sincronia con lo scenografo, i colori mutano in maniera decisa fra degli interni claustrofobici e gli esterni desolanti, dominano il grigio, il rosso ed il marrone.

Ciò che caratterizza ulteriormente in positivo Calvaire sono le inquadrature dei paesaggi boschivi di un Belgio silente e avvolto dalla neve, paesaggi che si sposano alla perfezione con le sensazioni di alienazione in cui vivono gruppi di boscaioli e contadini dediti ad usuali rapporti carnali con animali.

La prima pellicola di Fabrice Du Welz è in definitiva un dramma violento, iperrealista e antididascalico, capace di creare sensazioni di angoscia, ed il tutto non sotto forma di manierismo di genere, ma con uno stampo autoriale di discreta fattura.



Il cinema strutturale di Michael Snow

 

Michael Snow è un regista canadese, tra i maggiori esponenti del cinema strutturale.
Tra le principali influenze di questa corrente troviamo le sperimentazioni di Andy Warhol e quelle di Stan Brakhage.
Brakhage è affine da un punto di vista stilistico, mentre Warhol da un punto di vista empirico, nel senso che non si fermava ad una sperimentazione di tipo estetico, bensì andava verso un approfondimento sulla tecnica cinematografica come costruttrice di finzioni, approfondendo l'aspetto sensoriale in un' ottica quasi allucinogena.

I primi lavori di Snow, tra cui Wavelenght, rappresentano una riflessione sull'essenza stessa del cinema, realizzata attraverso un codice filmico preciso.
Il titolo del film deriva dalla raffigurazione delle onde nella fotografia, ma si riferisce anche alle onde sonore che si odono per 42 minuti, tra note gravi ed acute.

Wavelenght è un lunghissimo zoom in avanti che procede lentamente, riprendendo un locale vuoto con porte e finestre, concludendosi con un dettaglio di una fotografia attaccata al muro.
Durante questo graduale processo, l'immagine viene manomessa da svariati filtri cromatici ed effetti.
Si svolge nel frattempo anche una brevissima storia(di cui però la cinepresa si disinteressa) in cui un uomo si accascia a terra ed una donna parla al telefono, probabilmente in ansia per l'accaduto. Ma in ogni caso lo zoom avanza sino ai dettagli del quadro, lasciando così fuori campo lo svolgimento della scena.
L'inquadratura stringendosi sempre di più, opta nel finale per una dissolvenza incrociata sulla fotografia del mare appesa alla parete.
Ecco che la narrazione viene annichilita e destrutturata, non interessa più.

Wavelenght è un analisi sul cinema e su come le sue caratteristiche vengano sfruttate per ingannare la percezione, mettendo in risalto così la finzione del mezzo cinematografico.
Snow non agisce sul racconto bensì sui meccanismi, in modo da metterli a nudo e svelarne la loro natura.
Il suo è un tentativo esasperato di uscire dalla rappresentazione mistificatoria ove si rimane schiavi vincolati alla tecnica ed dalla "messa in scena", vi è una volontà nel riflettere attraverso il film stesso, sulla costruzione del falso filmico.
C'è la consapevolezza nitida di come la macchina da presa prestabilisca ed acconsenta la finzione sul grande schermo.

Difficile dire altro, se non che trattasi di uno dei più grandi esperimenti sull'analisi dei confini del mezzo cinematografico.
Una riflessione permanente e complessa sul "vedere".

"Non ho mai avuto un particolare interesse nella narrazione o nel raccontare delle storie. Ho sempre voluto provare a produrre nuove forme con il tempo. Raccontare una storia è qualcosa di molto profondo, noi stiamo sempre a raccontare storie. Ma non è l'unico modo di creare qualcosa con il tempo. Non credo però di imitare la musica.
Faccio una generalizzazione enorme: i film di narrazione vengono dalla tradizione del romanzo e del teatro. E' la loro eredità. Penso che i miei film, e anche un buon numero di cosiddetti film sperimentali, sono in realtà più legati alla poesia e alla musica. E poi questi vengono fatti da una sola persona, mentre la maggior parte dei film di narrazione coinvolgono molte competenze e un sacco di soldi. Una delle scoperte più radicali che il cinema sperimentale ci ha mostrato è che una persona con una macchina da presa può fare cose che hanno la stessa profondità di quelle che vengono fatte da un largo numero di persone. Questo aspetto è sempre più esplorato perchè sempre più persone nel mondo dell'arte stanno lavorando con le immagini in movimento in diversi modi."



Intervista Autunna Et Sa Rose

Autunna et sa Rose è un progetto musical-teatrale nato nel 1994.
La proposta è una sintesi di diverse forme d’arte, li si è etichettati spesso con il termine “teatro-musica”, ma trattasi di una definizione riduttiva.
In occasione della recente uscita del loro lavoro Phalène d’onyx, abbiamo avuto modo di discutere con il fondatore Saverio Tesolato sulla quasi ventennale carriera della sua creatura artistica.

Ciao Saverio, benvenuto.

Complimenti per Phalène d’onyx, un’opera poetica di grande spessore. Stavamo leggendo nel booklet la descrizione del concept. In merito scrivi:

il fine ultimo del concept è di ridare importanza all’amore poetico nel mondo odierno, schiavo della civiltà consumistica e sempre più teatro di rapporti umani spesso destinati alla rovina perché non sinceri e facilmente manipolabili, pronti a vacillare ai primi condizionamenti esterni”.

Effettivamente le vostre tematiche paiono oggi anacronistiche, ma sono fondamentali. L’amore è quella forza vitale che funge da tramite fra la dimensione umana e quella sovrasensibile. Quanto è importante oggi trasmettere l’importanza di tale energia vitale attraverso l’arte?

Se questi temi possono apparire oggi anacronistici, evidentemente è perché si sono in buona parte persi quei valori sostanziali sui quali una società culturalmente evoluta dovrebbe invece fare perno. Da alcuni anni assisto al processo ininterrotto di appiattimento culturale in questo disgraziato Paese. Ci si preoccupa tanto della crisi economica senza considerare che la prima crisi è di matrice culturale: penso che ci voglia un bel coraggio ad osare di mettere un così massiccio freno allo sviluppo della cultura in questa Nazione.
Viviamo in un Paese schiavo delle convenzioni e delle mode, dove chi detta le regole ha la pesante abilità di riuscire a reggere la massa come il Supremo Burattinaio che tiene appesi ai suoi fili i burattini, manipolandoli come più gli pare e piace. Siamo ormai un popolo imbevuto di consumismo fino al midollo, rintronato da tanta violenza subita in decenni di televisione commerciale, fatto di poveri schiavi alla mercé del vile dio denaro. I primi bersagli di questa bieca e perversa indottrinazione sono i più giovani, oggi spesso senza troppe vere passioni, sempre più omologati e quasi sempre incapaci di rendersi conto del bombardamento cui sono soggetti, e che li cerca come più recettivi soggetti. La disgregazione della famiglia e con essa quella dei valori storici che essa, volente o nolente, ha da sempre rappresentato ha senz’altro favorito il germogliare di malsane abitudini nei giovani, come avvilente reazione alla loro profonda solitudine e allo spaesamento in un mondo che sempre più li vuole sfruttare senza offrire loro nemmeno un tornaconto in termini di futuro.
Lavorando a quest’ultimo impegnativo progetto, la mia mente è più spesso arrivata a pensare che, dopotutto, nonostante le difficoltà e le sofferenze a volte pesanti e pericolose che anch’io ho trovato dinnanzi al mio cammino, ho avuto una vita fortunata, la quale mi ha concesso soddisfazioni e la gioia, quanto mai insperata, di un amore sincero e profondo. In un certo qual modo, Phalène d’onyx racconta proprio tutto questo, narrando come da una condizione di sofferta chiusura e non-accettazione dell’altro-da-sé, si possa arrivare a vivere l’esperienza dell’amore come salvezza, ottenibile anche e soprattutto nella ritrovata capacità di donarsi davvero all’altro. Viviamo in una società in cui il primato dell’individualismo ha creato mostri sempre più algidi, in cui la saga surreale dei social network ha promosso e promesso la santa illusione della comunicazione totale, in cui la finzione regna sovrana in tutti i campi. Contro ogni moda o tendenza pseudomodernista, senz’alcun timore di patire lo scontro, Phalène d’onyx approda in questo calderone malsano e si propone come guerriero pronto a lottare strenuamente contro il consumismo, il cui odierno trionfo vorrebbe imporre a tutti noi comportamenti insulsi e figli di logiche non esattamente degne di esseri umani. Il fatto che ci interessi la cultura, la tanto vituperata in questo Paese, ha a che fare primariamente con l’insopprimibile necessità di vivere una vita in qualche modo piena. Vogliamo vivere emozioni vere e non precotte o stereotipate perché così ci hanno consigliato alla televisione, e la sensibilità che chiediamo necessariamente al pubblico che si avvicina alla nostra opera deriva da un vero desiderio di riscatto dalle convenzioni sociali e quindi culturali inculcate da tanti modelli consumistici. L’Arte può pertanto avvicinarci alla coscienza dell’Amore il quale, se vissuto quindi con la forza del sentimento puro e mai superficiale, pronta a scardinare ogni istigazione di matrice consumistica, può sconfiggere tale tendenza alla disgregazione e alla passività.

Troviamo che la definizione di “teatro-musica” vi stia un po’ stretta, sei d’accordo? Come presenteresti il progetto Autunna et sa Rose a chi ancora non vi conosce?

Autunna et sa Rose nacque nell’autunno 1994 con il preciso intento di fondere i linguaggi comuni di musica e poesia in una forma drammatizzata che permettesse di dare compiuta espressione ai convulsi moti emotivi dello spirito. La musica ha in realtà fin dall’inizio asservito alla funzione di "plasma emozionale", una sorta di contenitore privilegiato di un coacervo di impulsi ed idee più spesso facenti riferimento alla teatralizzazione "imposta" dai testi poetici, i quali hanno quasi sempre rappresentato l’incipit creativo fondamentale. In seguito anche diverse forme d’arte figurativa hanno non a caso concorso a fornire idee, essendo nel contempo parte di quel coacervo, vivendo cioè in associazione diretta con le forme d’arte sonora, quando non anche con quelle visuali, nel momento in cui s’è deciso che la videoproduzione poteva essere un campo assolutamente da coltivare (con il fine precipuo di utilizzare strategicamente i video prodotti all’interno degli spettacoli).
Non so a questo punto dire se la definizione sia da considerarsi restrittiva, rimane il fatto che Autunna et sa Rose è a tutti gli effetti, anche e soprattutto in virtù di ciò che è stato per esso prodotto fino ad oggi, un progetto musical-teatrale. È appunto la cosiddetta teatromusica quella sorta di combinazione artistica che rappresenta per noi la maniera in sintesi più naturale ed al tempo stesso complessa ed elaborata per esprimere compiutamente le emozioni che ci hanno da sempre formato e che intendiamo trasmettere come contributo energetico fondamentale dello spirito. Questo perché reputo che proprio il teatro incarni la sintesi vera di tutte le forme d’arte, in un’ideale Gesamtkunstwerk (l’opera d’arte totale), che rappresenta ancor oggi il nostro fine creativo: il fruitore viene infatti condotto a vivere una drammatizzazione teatrale che, in forma per nulla snobistica, rappresenta invece il mezzo principe per fare fuoriuscire le proprie ansie, le proprie gioie sepolte e portarne a galla la forza in esse intrinseca e latente. Mettere in scena, a nudo, il proprio cuore, in sostanza.

È evidente la vostra grande ammirazione per il teatro, definito da voi come summa di tutte le arti”. Citate spesso Antonin Artaud tra le vostre maggiori influenze. Artaud fu un personaggio controverso, il suo teatro aspirava ad una liberazione totale dello “spirito”. Cosa pensate di questo autore?

Artaud… Abbiamo aperto il nostro primo lavoro, Sous la robe bleue, con il brano L’Art et la Mort il cui testo fu tratto dal suo omonimo lavoro del 1929. Il nostro esordio discografico è datato 4 settembre 1996 - per un puro e fortuito caso - centenario della nascita di Antonin Artaud (in pratica la cosa fu da me scoperta solo in seguito...). Se fosse destino non so, certo fu una “rivelazione”, per così dire, che un anno prima avessi recuperato quello scritto che Artaud aveva allegato a margine della raccolta L’Art et la Mort, ed avessi deciso, così, impulsivamente direi, di musicarlo... Che dire a proposito dell’influenza che egli mi ha sempre dato? La prefazione al primo suo libro che lessi cominciava così: “Quando si è letto Artaud, non ci si riprende. I suoi testi sono di quelli, molto rari, che possono indirizzare tutta una vita, influire direttamente o indirettamente sul modo di sentire e di pensare, di regolare un comportamento sovversivo attraverso ogni tipo di sentimento, di pregiudizio e tabù i quali, nella nostra “cultura”, contribuiscono a frenare e pure a fermare uno slancio fondamentale”.
È proprio lo slancio fondamentale che può condurre alla liberazione totale dello spirito, fuori da qualsivoglia schema precostituito e convenzionale. Quelle poche righe testimoniano oggi in maniera ineccepibile la ragione per cui il progetto Autunna et sa Rose ha avuto la forza di continuare nonostante le innumerevoli difficoltà trovate, non soltanto in termini economici, ma pure nel riscontro e nell’interesse vero del pubblico. Artaud non può essere oggi visto né come poeta, né come scrittore, né come attore, né come regista, ma forse come tutte queste cose insieme e forse il contrario di tutte: di certo è stato un uomo che ha cercato di sfuggire a ciascuna di queste definizioni e, forse proprio per questo motivo, ha incontrato la più grande repressione possibile. Tuttavia ha avuto la forza di continuare, e non senza difficoltà e rischi per la vita, tanto che fu internato per dieci anni in un manicomio giacché ritenuto pazzo dalle autorità francesi dell’epoca che giudicavano i suoi scritti “malati”. Credo che donare la propria vita all’arte, per quanto possa oggi sembrare “anacronistico”, sia segno di forza di spirito, e se davvero Autunna et sa Rose fosse nato sotto la “protezione” spirituale di Artaud, credo non si fermerà dinnanzi a nulla e nessuno. Non abbiamo mai accettato di tenere a freno quello slancio fondamentale che ci ha spinto ad operare sacrifici che magari a molte persone parranno pura follia, ma che noi eravamo “obbligati” a compiere in virtù di una necessità quasi rituale (in effetti, è l’istinto del sacrum facere, del fare qualcosa che sia sacro per sé, per la propria vita, che vince ogni freno...); tanto che, ogni qual volta si profilava la prospettiva di un compromesso, potevano sorgere situazioni pericolose, o comunque dissocianti...
Ci sono infatti motivi profondi se ogni nostra rappresentazione live deve iniziare con il brano L’Art et la Mort. Un inizio che pare allo stesso tempo una fine, di questo sono cosciente e penso che l’effetto che ha sempre avuto sul pubblico possa essere stato quasi sempre una sorta di straniamento, come entrare in un microcosmo nel quale ogni emozione, ogni sensazione ha il diritto di essere amplificata: questo, oggi, deve essere per me il teatro della crudeltà...

Tornando sempre ad Artaud, egli, perseguendo alcuni aspetti del teatro surrealista di Alfred Jarry, cominciò un discorso di distruzione del linguaggio, contro la scrittura di scena. Dopo la sua morte nel nostro paese è apparso Carmelo Bene che ha proseguito sulla sua stessa linea. Quanto c’è di Alfred Jarry e di Carmelo Bene nella vostra formazione artistico/culturale?

La mia ammirazione per Bene è da sempre altissima: ha rappresentato un modello di vita per il e nel teatro, il più grande e unico vero attore - nel senso di colui che agisce in maniera piena sulla propria presenza e sul lavoro che va a metter in scena - italiano, una figura che oggi manca a noi tutti ineluttabilmente. Per svariate ragioni egli fu considerato epigono di Artaud, di certo nella misura in cui, in riferimento a quanto affermi, operò una “distruzione” affine a quella artaudiana, ma che puntava più specificamente alla deformazione dell’espressione verbale, a quella sagace e quasi perversa operazione, che l’ha reso non per nulla celebre, sulla phonè: un processo che aveva a che vedere in misura determinante con l’aspetto sonoro e quindi musicale - non per nulla era un grande conoscitore di musica - della funzione dell’attore. Ricordo gli anni di gioventù nei quali la televisione di Stato - e, in seguito, nel corso degli anni novanta, anche quella commerciale, concedendogli spazio all’interno di storici talk-show - trasmetteva opere teatrali e contributi vari di Bene (addirittura, pensando ad oggi, il suo Macbeth in prima serata…): fu quello certamente un modo di crescere culturalmente bene, o meglio, Bene (gioco di parole quanto mai azzeccato, direi!)…

Torniamo a Phalène d’onyx, è sorprendente l’alchimia che si viene a creare tra le quindici poesie con le “immagini sonore” che si formano durante l’ascolto. In che modo avete lavorato nella creazione di questo concept?  Dai vostri appunti sulle composizioni si evince un grande lavoro sui dettagli, sulle armonie e sulla metrica..

Tutto iniziò attorno ai mesi di quel magico autunno 2004, allorché presero forma le prime embrionali idee riguardo al concept: In quel periodo erano state da me già scritte alcune poesie senza che vi fosse stato in realtà alcun secondo fine, tanto meno quello di realizzare questo progetto, nella maniera composita in cui è stato poi concepito. Dopo alcuni mesi, in seguito ad un’approfondita analisi testuale, fu chiaro come, per la loro musicalità profonda, a livello linguistico come pure in virtù delle evocazioni cromatiche che vari testi lasciavano trasparire, avesse pienamente senso costruire attorno ad alcune di queste, accuratamente selezionate, altrettante composizioni musicali, ogni volta elaborando nuove strategie, tutte comunque conformi all’obiettivo primario di trasporre il testo in musica.
All’epoca solo una composizione era tuttavia stata già scritta, vale a dire quella Seele im Spielkartenschloss (Anima nel castello di carte) la quale funse proprio da punto di partenza, da incipit di un ideale percorso che fino allora era tuttavia evidentemente immerso in una fitta nebbia che si sarebbe dissolta gradualmente soltanto qualche anno dopo. Infatti fu appena ad aprile 2007, quando cominciai ad elaborare le idee per Fruscii di sognata libertà… per clarinetto, percussioni e suoni elettronici - la composizione del quale brano tuttavia fu terminata nel maggio dell’anno successivo, dopo una lunga interruzione -, che iniziò a diradarsi nella mia mente quell’atmosfera plumbea e compresi come avrei dovuto tessere da lì in poi la tela dell’intero progetto.
Si trattava chiaramente di un lavoro che stava assumendo una connotazione piuttosto ricercata ed ambiziosa, da realizzarsi compiutamente in tempi certamente non brevi: la fase di composizione delle musiche si estese infatti nel corso di alcuni anni, fino alla primavera 2010. Decisi tuttavia di iniziare le registrazioni a fine settembre 2008, quando ancora mancavano varie composizioni da scrivere: preferii procedere in questa maniera, perché così ero in grado di lavorare alla composizione dei brani rimanenti tra una sessione in studio di registrazione e l’altra e mentre già avevo consegnato i vari spartiti ai musicisti che volta per volta avrebbero interpretato i pezzi già scritti, e che dovevano perciò avere il tempo di studiare le rispettive parti. Nel corso dell’estate 2010, terminate le ultime sessioni di registrazione, mi misi a lavorare sulla grafica preparando otto progetti per relative immagini connesse alle composizioni portanti, le quali nell’intento sarebbero servite da ideale completamento di un trittico espressivo, vero oggetto dell’opera nel suo insieme organico: tutto quanto entra infatti in simbiosi con le immagini, pronte ad offrire una visione privilegiata della musica e delle parole, ovvero create con l’effettivo fine di traslare il pensiero in una dimensione parallela, altra, ma possibilmente in sintonia con l’interiorità, con la vita spirituale di chi ascolta, legge e guarda.
Dal punto di vista squisitamente compositivo, le diverse strategie vennero da me elaborate in conseguenza alla progressiva selezione effettuata sull’insieme di poesie preesistenti, ogni volta seguendo tecniche e procedure diverse in relazione alle differenti caratteristiche di intrinseca musicalità che man mano emergevano dalle poesie stesse. Alla pagina www.ederdisia.com/pdo.html sono disponibili alcuni link a documenti scaricabili, contenenti informazioni specifiche sulle composizioni portanti, oltre a dettagli tecnici più approfonditi che illustrano le diverse strategie compositive.

Nello split con gli Ataraxia compare per la prima volta la splendida voce di Sonia Visentin. Quanto è importante il suo apporto come soprano?

Sonia è oggi a tutti gli effetti uno dei più talentuosi soprani di coloratura del mondo, con un’estensione davvero superba ed unica, in grado di produrre note sovracute con una tecnica e nel contempo una naturalità impressionanti. Dopo quasi dieci anni, credo di poter orgogliosamente affermare che il nostro sodalizio artistico rappresenta una vera sicurezza, di conseguenza il suo contributo in termini qualitativi è in costante aumento grazie anche alle sue innegabili doti e in generale alla sua esperienza nell’ambito della musica contemporanea: posso oramai dire di conoscere la sua voce in praticamente tutte le sfumature, anche perché costantemente, nei limiti del possibile, la seguo anche in occasione di rappresentazioni di opere di musica contemporanea o concerti di compositori con cui solitamente collabora (tra tutti Guarnieri ed Ambrosini). Pertanto sono arrivato oggi a strutturare in partenza le mie composizioni in modo da sfruttare al meglio le notevoli risorse di Sonia, conscio cioè che ogni nota che vado a scrivere per lei sul rigo avrà l'effetto da me desiderato, in sostanza come già fin dall'inizio “udito nel mio cervello”.

Nel precedente L’Art et la Mort avete destrutturato due grandissimi pezzi come “Ostia (The Death of Pasolini)” dei Coil e “Leben-Tod” dei Laibach. Come nacque l’idea?

Per L’Art et la Mort la scelta di questi pezzi ha fatto parte di una collezione di brani di artisti di un recente passato, perlopiù di genere wave-gothic/industrial, distillati attraverso un processo di destrutturazione di stampo cubista: come in un quadro di Braque i brani originali sono stati fatti a “pezzettini”, tessere di un puzzle ulteriormente tagliuzzate, contaminate e sbrindellate, ogni volta in base a parametri diversi, per poi essere ricomposti con esiti spesso sconvolgenti.
In ogni caso, la scelta della totalità dei brani de L’Art et la Mort è stata condizionata dal fatto di averne una precisa conoscenza: per ciascun brano l’interesse primario è stato rivolto anzitutto nei confronti dell’opera, come dissociata in verità dal proprio autore. Una figura che, al mondo d’oggi, è purtroppo arrivata ad acquisire eccessiva importanza, al punto di generare situazioni paradossali, come quelle riguardanti alcuni musicisti che si sentono più corrisposti nel proporre soltanto brani altrui, specificandone sempre bene l’autore e facendo l’impossibile per assomigliare a questo, in un’assurda ricerca di spersonalizzazione creativa la quale ha come unico fine il riuscire a clonare il successo dell’altro: vedi l’ancor oggi dilagante fenomeno delle cover-bands.
Per questa operazione di destrutturazione musicale non è stato mai sufficiente cambiare soltanto il testo dei brani, né tanto meno utilizzare strumenti diversi da quegli adoperati in origine dai loro autori: la partitura è stata infatti sempre stravolta e talvolta solo alcune battute si sono conservate, spesso relative alla parte di strumenti che non eseguivano melodie portanti; si è inoltre sempre arrivati a decontestualizzare l’opera prelevandone una cellula che poi ha finito per generare soluzioni diverse, magari poi anche “scontrandosi”, in momenti inaspettati, con altre cellule, per dar vita a un groviglio completo e necessariamente complesso.
La destrutturazione è stata soltanto un mezzo, uno strumento formale, se vogliamo, il cui rivoluzionario fine si configura nell’ironia come atto di acquisito snaturamento, di perdita dell’identità e quindi dell’identificazione di un oggetto (sonoro), che ne rende la forma ai più irriconoscibile. A tal livello anche la sostanza muta, e ne è prova il fatto stesso di avere prelevato scritti di autori letterari ben più anziani, con l’intimo fine di comunicare qualcosa di specifico e di diverso dallo spirito originale dei brani, oltre che di stabilire un “ponte” tra le epoche, che dia in un certo qual senso l’idea dell’atemporalità dell’Arte. Si potrebbe quasi dire che la scelta di quei brani sia stata una sorta di pretesto per comunicare qualcosa d’altro, che io ho preteso di tirare fuori dalle spire del Tempo, ed anche la scelta degli estratti letterari non è affatto casuale, bensì intende legare idee e afflati di menti illustri e sublimi spiriti del passato distanti tra loro, nel tempo e anche dal punto di vista della formazione culturale.
Evidentemente nel caso di Ostia non potevo che accostarvi una poesia di Pier Paolo Pasolini: uno scritto profetico, perché emergono chiare dalle pieghe dei disincantati versi dei colui che è stato, a mio parere, il più grande intellettuale italiano della seconda metà del Novecento, le prime avvisaglie dell’arrivo di una fine precoce dell’esistenza, come se in verità egli sentisse attorno a sé il male profondo e “ramificato” che, sebbene in circostanze tuttora rimaste oscure, lo trascinò verso una morte violenta. Come a chiudere un immaginario cerchio, nell’ottica della condivisione di idee a distanza di epoche della Storia, pare incredibile come di recente siano scomparsi anche gli stessi Balance e Christopherson, quasi chiusi in un medesimo destino.
Per quanto riguarda invece il brano della band slovena, l’idea, suggerita dal particolare titolo del pezzo, prese il via originariamente dalla composizione di Leben-Tod (Spiralemusik) come allegoria della dualistica immagine della spirale del pittore-architetto austriaco Hundertwasser, forma che egli considerava come vero trait d'union tra la vita e la morte, potendo essa dare espressione a tutta la Natura, all'intera creazione.
Neue Wirklicheit è nata pertanto come “seconda cover”, riprendendo un riff di chitarra distorta dell’originale e adattandola al violino, aggiungendovi poi un contrappunto di violoncello. Non è stato in realtà necessario scavare in strutture musicali peraltro scarne: l’armonia è stata rivista quasi per intero e si è scelto di inserire una base ritmica elettronica molto meno “cattiva” e quasi irridente, privilegiando quindi un taglio chiaramente ironico e magari kitsch, ipercromatico proprio come i dipinti di Hundertwasser. Nei suoi lavori egli ci ha raccontato favole moderne, non come quelle che sentivamo da piccoli, ma qualcosa di fantasticamente zampillante dal nostro subconscio, come di colpo risvegliato dal piattume della vita quotidiana e dal grigiore dell’ipocrisia metropolitana delle città in cui viviamo. Hundertwasser credeva infatti ad un’esistenza dopo la morte ed ha cercato di farci capire come solo grazie ad un buon rapporto con la Natura siamo in grado anche di comunicare con i nostri avi, perché sono proprio le loro anime “sepolte” in terra che sono capaci di dare vita e vigore ai fiori e agli alberi, questi ultimi veri e propri “doppi” degli uomini, secondo il genio austriaco.

Anche il campo letterario ha una funzione importante nella vostra arte. Quali sono i letterati che più vi hanno influenzato negli anni?

Artaud, Baudelaire, Camus, Cocteau, Laforgue, Apollinaire, Kafka, D’Annunzio, Hofmannsthal, Bergman, Wenders, Pasolini, Kandinskij, Kokoschka, Poe, Duchamp.

Qual è il vostro rapporto con la settima arte? Dai vostri esordi emerge il simbolismo del polacco Kieslowski, il grandissimo regista del Decalogo. Il cinema europeo tuttavia negli ultimi anni è stato quasi soppiantato qualitativamente dai film che giungono dall’oriente, Corea e Giappone. Sei d’accordo?

In effetti non soltanto il teatro (visto quasi più come “contenitore” e punto di arrivo, che come pozzo dal quale trarre specifici riferimenti), ma più spesso la letteratura e ancor più il cinema, sono sempre stati per noi fonti di ispirazione determinanti per la nostra ricerca. Certamente la scelta di esserci presentati e caratterizzati fin dall’esordio con un lavoro che in copertina aveva un fotogramma tratto dal film La doppia vita di Veronica di Kieslowski, dimostra che abbiamo sempre prediletto forme d’arte visuale nelle quali cinema e teatro s’intersecano o a volte addirittura s’identificano: il cinema è in un certo qual senso più “artificioso”, in quanto arte costruita, che non ha di solito il dono della contemporaneità espressiva. In entrambe le forme d’arte - e perché no, anche nella musica! - la poesia come mezzo espressivo può e dovrebbe ancor oggi giocare un ruolo determinante, intesa sia nella sua forma tipicamente letteraria, che nella raffigurazione visiva di scene, in termini della grafica o dell’uso strategico delle immagini in generale. Per questo motivo e su questa linea artistica ho iniziato da alcuni anni a coltivare, oltre alla grafica, anche la videoproduzione, vista come elemento “collante” delle varie istanze espressive.
Per quanto riguarda la questione del cinema dell’Estremo Oriente, non è da escludere che, a partire già da una ventina d’anni, motivi di carattere politico abbiano condotto varie giurie di festival europei - e molto spesso proprio di casa nostra - a puntare su cineasti asiatici, comunque, a mio avviso, di grande valore (tra questi anche, ad esempio, Kiarostami, che, non a caso, è iraniano); tuttavia, credo sia improprio l’aggettivo “soppiantato”, in quanto il cinema europeo ha ancora oggi una dimensione di notevole rilevanza qualitativa, tanto che nei festival europei le pellicole continentali ancora hanno un consistente spazio e una considerazione generalmente degna di nota.

Ci sono possibilità di vedervi inscenare le vostre rappresentazioni teatrali in Italia? Che tipo di difficoltà incontrate nel proporvi?

Da anni dobbiamo lottare contro un sempre più dilagante immobilismo, che vincola gli organizzatori, in Italia come spesso pure all’estero, ad una mentalità ristretta e culturalmente arretrata, quando si tratta di accogliere e quindi proporre qualcosa di “nuovo”. C’è inoltre da considerare il fatto che ormai risulta chiaro che il nostro stile regge decisamente meglio una situazione dal vivo necessariamente legata ad un ambiente teatrale, anche pensando al genere di pubblico destinato ad affacciarsi al progetto. Per cui siamo sempre in cerca di ambienti il più possibile particolari, se non esattamente teatri, comunque spazi interdisciplinari adeguati al caso (quindi di certo non pub, birrerie, ecc.), oppure chiese sconsacrate, sale polivalenti, interni per mostre d’arte figurativa, ecc. La cosa chiaramente crea un ulteriore vincolo, ma è d’altro canto evidente come uno spettacolo di Autunna et sa Rose non sia comodamente fruibile in un ambiente troppo diverso.
In ogni caso, resta il limite principale dell’immobilismo della maggior parte degli organizzatori, causa del quale è la mancanza di una mentalità aperta a sufficienza per capire che le idee nuove vanno battute, da parte di chi dovrebbe nel nostro Paese sbattersi per la cultura, per le idee e le proposte nuove, ed invece spende le risorse disponibili sempre per le stesse cose, andando in cerca solo di chi è bravo ad imitare gli altri... Specie in Italia, nessuno è più disposto a rischiare, magari ti promettono o si mostrano inizialmente interessati, poi quando è ora di passare ai fatti si tirano indietro, e non sempre per un fattore meramente economico, ma per paura di proporre qualcosa di “troppo strano”, di “ostico”, di “inadatto” al pubblico, abituato invece a spettacoli d’altro genere… E propongono così, rispettando alla lettera la regola delle lobby, le loro mafiose cose con l’illusione che possano portare loro lauti guadagni e lustro all’immagine delle istituzioni coinvolte, perseguendo con sempre maggiore ostinazione e con tanto di “paraocchi” la politica (è il caso di dirlo...) dei “nomi grossi”...
Chiaramente, come da costume tipicamente italiano, devi essere figlio di, nipote di, eccetera. E, d’altro canto, come chiusura del circolo (vizioso), se non puoi vantare una seppur minima dose di popolarità, al giorno d’oggi non sei nessuno, non hai quasi speranze nel momento in cui ti vai a rivolgere presso organizzatori di eventi, assessori e compagnia bella... Oggi, tra l’altro, con la diffusione delle e-mail, è divenuta dilagante anche la moda di non rispondere affatto alle comunicazioni (in forma elettronica, ma anche fisicamente scritta…), specie se indirizzate con l’interesse di proporre idee le quali, evidentemente, mettono in crisi a tal punto da inibire il destinatario da qualunque tipo di risposta…

Torniamo indietro di qualche anno e parliamo di Sturm, un altro concept album davvero interessante. Il percorso interiore del protagonista sfocia nel finale in una riconciliazione dell’uomo con l’unità indivisa dell’universo. Come nacque quell’opera e qual è il tuo rapporto con la spiritualità?

Sturm è il titolo dell’omonima opera di teatromusica, la cui sceneggiatura fu completata all’inizio del 2003, dopo che il disco era già uscito quasi un anno prima. Tutto iniziò nell’estate 1999, subito dopo avere terminato un intenso laboratorio teatrale, che ritengo essere stato fondamentale per la mia crescita artistica oltre che spirituale. In quel periodo, dopo avere vissuto alcune traversie con la difficile situazione dell’ensemble, iniziai a scrivere la sceneggiatura per un’opera di teatromusica che, dovendo nell’idea di base fare riferimento ad alcuni anni della mia vita, fu dall’inizio progettata a partire da certi miei vecchi scritti. La sua stesura, all’interno della quale stavano intanto prendendo forma concreta anche le composizioni musicali, fu poi a più riprese interrotta fino al dicembre 2000, periodo in cui cominciai a capire una serie di cose riguardo al significato d’insieme che il lavoro avrebbe dovuto avere: l’opera fu infatti concepita come una sorta di compenetrazione fra teatro e musica, in cui le scene dovevano essere inframmezzate da momenti strettamente musicali nei quali il protagonista poteva suonare, recitare, oppure essere accompagnato dall’orchestra. Pertanto la storia prese piede nella mia mente in maniera graduale, pur essendo io evidentemente conscio fin dall’inizio di ciò che volevo comunicare e che aveva fatto parte di anni importanti della mia vita interiore; non per nulla, anche i brani musicali vennero da me composti in alternanza ed in relazione ai diversi momenti che si susseguivano all’interno della storia stessa.
L’opera si conclude con un ricongiungimento cosmico del protagonista con le forze primordiali dell’Universo, a tutti gli effetti “al di là del tempo”: questo traguardo ultimo, più che permettere all’uomo un rapporto con forze sovrannaturali, gli ribadisce il valore di una vera comunicazione con il Cosmo, in una ricerca di Armonia superiore che nella sua sostanza non ha nulla di ultramateriale. Credo che questo mio interesse per la cosmologia sia legato all’esigenza vitale di cercare un senso dell’esistenza dell’uomo nell’Universo: in quanto elemento di un Tutto in evoluzione continua e imperitura, con il quale deve potere vivere in armonia, egli ha bisogno di ritrovare il rispetto verso ogni sua piccola componente, da cui nasce l’importanza di un sentimento ecologista, come infatti rivendicato da Hundertwasser.
La spiritualità è pertanto presente all’interno della Natura, le anime ci circondano e ci guidano, se abbiamo la forza di ascoltarle: non a caso, una delle cardinali fonti d’ispirazione dello Sturm fu il film di Wenders del 1987 Il cielo sopra Berlino, giunta nell’esatto momento in cui la storia richiedeva che il protagonista subisse l’abbandono della propria amata, e che condusse all’idea di realizzare per tale momento la cover stravolta del brano Some Guys di Tuxedomoon (nelle prime sequenze del film, infatti, l’angelo vola tra i palazzi berlinesi, entrando, attraverso una finestra aperta, in un appartamento nel quale una radio diffonde il suddetto brano). Vale comunque la pena di rammentare che quel film resta ad oggi uno dei più luminosi esempi di vera e vivida poesia nella storia della sceneggiatura cinematografica e mette apertamente di fronte lo spettatore alla necessità di un’indagine profonda del proprio spirito, del senso vero dell’esistenza. A poco più di vent’anni - ricorderò sempre la mia prima visione, nel novembre 1989, a pochi giorni dalla caduta del Muro - è un film che ti cambia la vita, se non altro la orienta verso una direzione che di lì a pochi anni si sarebbe rivelata in misura sempre più inequivocabilmente definita…

In merito alla struttura poetica di Phalène d’onyx, ci è venuta in mente una considerazione di Jean Cocteau:
“La tragedia peggiore per un poeta è essere ammirato attraverso una scorretta interpretazione.” 
Cosa ne pensi?

Evidentemente, conoscendo il personaggio, Cocteau aveva vissuto sulla propria pelle tale tragedia. Mi viene necessariamente da pensare che abbiate collegato questa frase alla citazione che ho riportato all’interno dei documenti relativi alle composizioni portanti di Phalène d’onyx: essa è tratta dal suo film del 1959 Le testament d’Orphée, ou Ne me demandez pas pourquoi, ultimo capitolo della trilogia sulla figura del poeta. La citazione ha un chiaro sapore provocatorio, in quanto configura il poeta come destinato al quasi totale isolamento ed altresì costretto a “esibire la sua anima nuda davanti ai ciechi”. La mia istanza provocatoria, conseguenza, come nel caso di Cocteau, dell’esperienza di vita e della raggiunta coscienza dell’isolamento sopra riferito, intende tuttavia scuotere gli animi sensibili e condurre verso una ricerca vitale di altri compatrioti: ecco il motivo per il quale, a differenza di tanti compositori di oggi, generalmente di formazione accademica, ho deciso di spiegare la mia musica, con tutte le connotazioni poetiche in essa contenute, dato lo stretto legame con la componente testuale che l’ha di fatto generata. Infatti i vari documenti prodotti sono tutti divisi in due sezioni: la prima è focalizzata sul tema di ogni singola composizione, ed è pronta quindi ad illustrare i significati meno evidenti e le connessioni nascoste dietro i testi; l’altra contiene un’analisi della struttura squisitamente musicale, con tanto di spiegazione delle tecniche compositive impiegate (utile a chi intende giungere ad un approfondimento se vogliamo viscerale, o magari anche semplicemente per coloro i quali - armati della necessaria pazienza - vorranno capire davvero il perché di tante scelte da me operate).
Ora, che tutto ciò possa necessariamente evitare la suddetta tragedia, non ci è purtroppo garantito. È però, credo, importante ricercare la comunicazione con ogni mezzo, offrendo il fianco ad ogni opportunità di discussione ed analisi: è, non per nulla, il motivo per il quale siamo qui ora, dentro un’intervista, che negli intenti di noi tutti deve pervenire ad un insieme di lettori/fruitori nei quali ricerchiamo una dose di sensibilità che li conduca ad un’interpretazione, comunque personale, ma se possibile non scorretta.

Grazie Saverio per la cordiale chiacchierata sul vostro elegante progetto artistico, a te l’ultima parola.

Tornando (volentieri) a Cocteau, credo che per quanto la lingua del poeta sia fatta di parole che pochi parlano e pochi ascoltano, non se ne debba per forza eclissare l’esistenza. Evidentemente stiamo vivendo un‘epoca di enorme decadenza culturale, e gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, specie di quelli degli uomini di cultura che si ritrovano costretti a fare ovvi confronti con i decenni passati. Tuttavia, la mia personale impressione è che oggi si sia sviluppata la marcata tendenza a VOLER essere ignoranti, ad allontanarsi intenzionalmente dalle fonti di rinnovato interesse culturale, obbedendo passivamente ai dettami imposti da qualcosa di molto simile al Big Brother orwelliano (o forse parente più stretto della sovrastruttura di regime descritta da Bradbury in Fahrenheit 451), magari più sottilmente subdolo.
Se i miei lavori sono “di nicchia” è perché, in misura sempre maggiore a partire da questi ultimi lustri, si sta diffondendo la tendenza alle emozioni da ipermercato: la gente pare non sia più in grado di avere un giusto approccio all’atteggiamento riflessivo, si rifiuta quasi di pensare, arriva a casa la sera e non ha voglia di roba complicata, di sentire la poesia in un disco o in un film, è stressata, vuole rilassarsi e non scervellarsi di fronte ad un lavoro in cui c’è troppo da capire… Alla luce di ciò mi viene da vomitare a pensare a tutti coloro che ci hanno etichettati come “snob”, “(troppo) intellettuali”, eccetera.
Autunna et sa Rose ha da sempre mirato ad una reazione di almeno una “frangia” di persone, le quali non si accontentino più delle loro presunte sicurezze, basate sulla logica del supermarket e dei “consigli” televisivi, ma decidano una volta per tutte di ricercare, di non fermarsi alle comode apparenze della quotidianità, accettando di mettersi in discussione e di affrontare percorsi anche accidentati, pur di scoprire. Il mio desiderio sarebbe in ogni caso di potere espandere, pur con gli evidenti limiti del caso, questo nucleo di fruitori.
In alcuni spettacoli di qualche anno fa creai un’allegoria che mi auguro abbia fatto riflettere il pubblico presente: ho chiesto all’audience cosa farebbe se, trovandosi in uno sterminato campo pieno di sterpaglie ed erbacce rinsecchite, scorgesse in lontananza una montagna isolata e ripida, sulla cui cima si intravedesse un giardino tanto lussureggiante - certamente luogo di sogno con piante rarissime - quanto assai duro da raggiungere, a causa del percorso irto ed accidentato da compiere per salirvi. Cosa fare? Arrampicarsi improvvisandosi novelli scalatori su pareti impervie, oppure… “Cosa fareste voi?” - chiesi al pubblico. “Io - dissi loro - sono già salito. Ci ho provato, commettendo forse errori di vario genere, sentendo spesso la fatica piombare come un macigno pronto a rotolarti addosso da dietro, con la continua paura di cedere: ma ho visto, e bene, il giardino incantato, anche se per pochi istanti. E posso dire che ne valeva la pena, tanto che sono pronto a risalire, anzi, sono continuamente in salita, continuamente nel tentativo di guadagnare metri per giungere al giardino e potervi metter piede ancora, anche se per pochissimo tempo”.