Ricordiamo la struttura portante della cosmologia
dantesca. Fare ciò è proprio necessario per il fatto che nei commenti
alla Divina Commedia essa viene spesso disegnata come sfera terrestre
circondata dalle sfere degli astri celesti, dal cielo delle stelle fisse, dal
cielo cristallino e infine dall’ Empireo; cosicchè il tragitto che compie
Dante, uscendo dalle viscere della terra viene disegnato con una linea spezzata
che si trasforma in una spirale attraverso sfere concentriche voltando di 180°
verso lo Zenit di Sion. Un tale disegno non è affatto conforme nè al racconto
di Dante nè ai fondamenti della sua cosmologia. Il quadro, infatti, di questo
universo non è rappresentabile secondo il disegno euclideo; cosi come la
metafisica dantesca non è paragonabile alla filosofia di Kant. I matematici
Khalsted 1905, Weber 1905, Simon 1912 hanno già segnalato in Dante gli anticipi
della geometria non euclidea: ad esempio negli interrogativi al Signore da
parte del re Salomone ansioso di sapere
... se del mezzo cerchio far si pote
triangol si ch’un retto non avesse
(Par. XXIII, vv. 101-102)
Ricorderemo dunque il viaggio di Dante e Virgilio.
Esso inizia in Italia. Entrambi i poeti scendono le erte imbutiformi dell’
Inferno. L’imbuto termina con l’ultimo cerchio, il più stretto: quello del
signore dell’ Inferno. In questo percorso entrambi conservano, per tutto il
tempo della discesa, la posizione verticale con la testa verso il luogo da cui
sono scesi, cioè verso l’Italia e dei piedi verso il centro della terra. Ma
quando i poeti raggiungono all’ incirca il lombo di Lucifero essi,
all’improvviso si “capovolgono” portando i piedi verso la superficie della
terra da dove sono entrati nel regno degli inferi con la testa verso la parte
opposta:
...
Di vello in vello giù discese poscia
tra
il folto pelo e le gelate croste.
Quando
noi fummo la dove la coscia
si
volge, a punto in sul grosso dell’anche,
lo
duca, con fatica e con angoscia,
volse
la testa ov’elli avea le zanche,
e
aggrappossi al pel com’uom che sale,
si
che ’n inferno i’ credea tornar anche.
“Attienti
ben, che per cotali scale”
disse
’1 maestro, ansando com’uom lasso,
“conviensi
dipartir da tanto male”.
Poi
usci fuor per lo foro d’un sasso,
e
puose me in su l’orlo a sedere;
appresso
porse a me l’accorto passo.
Io
levai gli occhi, e credetti vedere
Lucifero
com’io l'avea lasciato;
e
vidili le gambe in su tenere
e
s’io divenni allor maravigliato,
la
gente grossa il pensi, che non vede
qual
e quel punto ch’io avea passato.
“Levati
su” disse ’1 maestro “in piede ...”
(Inf.
XXXIV, vv. 74-94)
Attraversato quel “limite” (che ancora adesso “la
gente grossa”, quella euclidea, “non vede”), terminato, cioè, il loro
cammino ed attraversato il centro della terra, i poeti si trovano nell’
emisfero opposto a quello “in cui fu crocifisso Cristo”. Essi risalgono
attraverso l’uscita a forma di cratere:
Lo
duca e io per quel cammino ascoso
intrammo
a ritornar nel chiaro mondo;
e
sanza cura aver d'alcun riposo
salimmo
su, cl primo ed io secondo,
tanto
ch’i vidi delle cose belle
che
porta ’1 ciel, per un pertugio tondo,
e
quindi uscimmo ariveder le stelle
(Inf.
XXXIV, vv. 133-139)
Dopo quel limite il poeta accede al monte del
Purgatorio e sale attraverso tutte le sfere celesti. Ora, sorge una domanda:
verso quale direzione? Il passaggio sotterraneo dell’ Inferno, attraverso cui
essi sono risaliti, s’era formato in seguito alla caduta di Lucifero; il quale
era precipitato dal cielo con la testa in giù. Di conseguenza il posto, da dove
egli fu gettato non si trova da qualche parte del cielo nello spazio
circostante la terra, ma proprio dalla parte dell’emisfero da cui sono entrati
i poeti. Il monte del Purgatorio e Gerusalemme, diametralmente opposti tra di
loro, sono sorti come conseguenza di questa caduta; e dunque la via per il
cielo segue la linea della caduta di Lucifero, ma in senso inverso. In questo
modo Dante si muove sempre in linea retta ed in cielo egli sta con i piedi
rivolti verso il luogo della sua discesa. Dopo aver guardato da lì, dall’
Empireo verso la Gloria di Dio, egli, in definitiva, senza aver fatto uno
speciale cammino all’ indietro si ritrova a Firenze. Il suo viaggio si è svolto
nella realtà; ma se qualcuno volesse negare ciò, in ogni caso, dovrebbe almeno
riconoscerne la realtà poetica, vale a dire l’immaginabile e il pensabile; in
una parola ciò che contiene in se i dati per il chiarimento dei presupposti
geometrici di Dante. Quindi, procedendo sempre in linea retta e girandosi su se
stesso una volta, lungo il cammino, il poeta giunge sul posto occupato
precedentemente nella medesima posizione in cui si trovava prima di lasciarlo.
Di conseguenza, se egli non si fosse rigirato su se stesso lungo la strada
sarebbe arrivato in linea retta nel punto di partenza con i piedi al posto
della testa. Dunque la superficie sulla quale Dante si muove e tale che,
procedendo in linea retta su di essa, con un’inversione di direzione, riporta
al punto di partenza in posizione eretta; e con un movimento eseguito in linea
retta senza capovolgersi riporta il corpo nella postazione originaria, ma
capovolta.
Evidentemente questa superficie è tale che: 1) in
quanto contiene in se linee curve e il piano di Riemann, e 2) in quanto ci si
capovolge, muovendosi nella sua perpendicolare, e una superficie “unilaterale”.
Queste due circostanze sono sufficienti per caratterizzare geometricamente lo
“spazio di Dante, costruito secondo un tipo di geometria ellittica”. Ricordiamo
che Riemann utilizzando propri metodi differenziali di ricerca, non ebbe la
possibilità di osservare una forma di superficie “piena”. In forza di ciò,
oggetto dei suoi studi furono, in maniera uguale, due geometrie assolutamente
eterogenee tra loro: una di esse pone alla base il piano ellittico, l’altra il
piano sferico. Nel 1871 F. Klein dimostrò che il piano sferico ha, come sua
caratteristica, la superficie bilaterale, mentre il piano ellittico è
unilaterale. Lo spazio di Dante è assai simile proprio allo spazio ellittico.
Ciò illumina di nuova luce l’idea medievale dei confini del mondo. Ma col
principio della relatività queste considerazioni geometriche generali hanno
acquistato, ultimamente, un’ inaspettata interpretazione concreta e dal punto
di vista della fisica moderna, lo spazio dovrebbe essere inteso proprio come
spazio ellittico e riconosciuto finito, cosi come il tempo che e finito e
chiuso in se stesso. La questione non si limita a questo stupendo regalo
giubilare al Medioevo della scienza galileana nemica. Ecco alcuni
successivi confronti.
La questione sta sulla riabilitazione del sistema
del mondo Tolemaica-Dantesca. Il principio della relatività “si dimostra” con
il fallimento dell’ esperimento di Michelson e Morley. Senza dubitare del principio
generale della relatività ma solo essendo leggermente perplesso su cosa
significhi nel principio ristretto “il movimento rettilineo uniforme” se non ci
fossero le assi fissi delle coordinate, avrei voluto tuttavia fare una semplice
domanda riguardo la causa dell’ insuccesso del ricordato esperimento. Alla base
dell’ esperimento e stata messa l’ipotesi del movimento della Terra, e quando
non sono state ottenute le conseguenze di questo movimento allora si e
cominciato ad inventare una serie di ipotesi nuove straordinarie che volevano
sostenere la prima ipotesi sul movimento della Terra. Ma l’ipotesi
riconosciuta, la più fondata, il principio ristretto della relatività, essendo
accettabile in se stessa, distrugge pero alla radice il presupposto di Michelson
perchè afferma che non e possibile con nessun esperimento fisico convincersi
dell’ ipotizzato movimento della Terra. In altre parole, Einstein proclama il
sistema di Copernico pura metafisica, nel vero e proprio senso della parola. Se
fosse cosi allora non sarebbe stato più semplice, al posto di cercare di
prendere l’orecchio attraverso la testa, cominciare a spiegare il fallimento di
Michelson con una supposizione più naturale, sulla “falsità” del suo
presupposto principale: si presumeva che l’esperimento si concludesse
felicemente perchè contavano sulla velocita della Terra (ipotetica!) di 30
km/sec; ma l’esperimento non è riuscito e di conseguenza, prima di tutto, si
doveva sospettare dell’ ipotesi supposta e pensare che la Terra si muova
veramente? La Terra giace nello spazio questa e la conseguenza “diretta”
dell’esperimento di Michelson. La conseguenza indiretta e la sovrastruttura
cioè proprio l’affermazione che il concetto del movimento, rettilineo e
uniforme, è privo di qualunque senso comprensibile. E se fosse cosi allora
perchè spezzarsi le piume ed ardere di entusiasmo come se si avesse conosciuto
la struttura dell’ universo?
Ma, oltre al movimento traslatorio della Terra,
bisogna considerare anche il movimento rotatorio e qui, sembrerebbe, che Copernico
avesse scoperto “qualcosa”. A questo presupposto si contrappone il principio
generale della relatività nella formulazione di Lenard che dice: “durante
qualsiasi movimento tutti i fenomeni della natura devono scorrere in modo
completamente identico indipendentemente dal fatto che sia l’osservatore o
tutto lo spazio circostante a muoversi in modo corrispondente.” In altre
parole, applicando (quanto detto) al nostro caso particolare, “non c’e” e
principalmente “non ci può essere” una dimostrazione della rotazione della
Terra. E in particolare non dimostra nulla il famigerato esperimento di
Foucoult: in presenza della Terra immobile e del firmamento che le gira intorno
come un corpo solido, il pendolo allo stesso modo avrebbe cambiato la posizione
del piano delle sue oscillazioni come nell’ ipotesi semplice di Copernico sul
movimento rotatorio della Terra e l’immobilita del Cielo. In generale, nel
sistema del mondo Tolemaico con il suo cielo di cristallo, “il solido celeste”,
tutti i fenomeni dovrebbero accadere, come nel sistema Copernicano, ma con il
vantaggio del buonsenso e della fedeltà alla terra, alla terrestre autentica
esperienza, con la corrispondenza alla ragione filosofica e, in fine,
soddisfacendo la geometria. Ma sarebbe stato un grosso sbaglio proclamare il
sistema Copernicano e Tolemaico come modi “paritari” della comprensione: sono
tali “solo” nel piano astratto-meccanico, ma, nell’insieme dei dati, vera
risulta quest’ultima, e falsa la prima. Questa e la conferma diretta del grande
poema anche se 600 anni dopo.
Anche la concezione del sistema
tolemaico-dantesco, come vero approfondimento, è appena agli inizi; giacche il
pensiero scientifico contemporaneo, in maniera del tutto inaspettata, ci
avvicina alla scienza aristotelico-dantesca sui principi dell’ esistente. Il
principio particolare della relatività viene talvolta espresso in forma del
principio, considerato ad esso equivalente, della “velocità massima cosmica (il
principio del limite delle velocita cosmiche)”: non può esistere velocità
superiore a quella della luce che e di 3x1010 cm. sec. Ma se ciò fosse vero
allora come secondo il principio generale della relatività può essere
altrettanto ammesso il movimento del firmamento attorno alla Terra, per il
quale, occorrono velocità immensamente superiori al limite sopra indicato?
Cosi, aizzati entrambi i principi, gli avversari del secondo, cioè i difensori
del sistema copernicano, pensavano di confutare l’origine delle obbiezioni
mosse loro. Essi però, senza aver riflettuto a sufficienza, si sono scavati la
fossa con le loro stesse mani.
Che cosa significa in sostanza che il (limite)
massimo di velocità e 3x1010 cm./sec.? Ciò significa che non siano affatto
impossibili le velocità uguali o maggiori a c, ma solo la comparsa, con
queste, delle condizioni di vita del tutto nuove, per ora a noi non
immaginabili, o, se si vuole trascendenti alla nostra terrestre esperienza
kantiana; ma questo non significa che tali condizioni siano impensabili, forse
anzi, ampliandosi il campo dell’ esperienza, esse saranno anche immaginabili.
In altri termini: in presenza di velocità uguali a c e, tanto più se
maggiori di c, la vita cosmica è qualitativamente differente da ciò che si
osserva in presenza di velocità minori di c; ed “il passaggio tra i campi
di questa differenziazione qualitativa è pensabile solo come discontinuo”. Rifacendosi
al sistema tolemaico, vediamo che il suo campo interno con il raggio
equatoriale R = (23ч 3м 56,6с / 2π • 300000) км dove 23h56m4,s1 è la durata del
tempo stellare secondo il tempo solare medio, riduce a se tutta la esistenza
terrestre. Questo è il campo dei moti “terrestri” e dei fenomeni “terrestri”,
mentre alla distanza massima ed al di là di essa inizia un mondo
qualitativamente nuovo: il campo dei moti “celesti” e dei fenomeni “celesti”,
ossia il Cielo. Questo equatore demarcatore, questa divisione tra Cielo e Terra
non è particolarmente lontano da noi e il mondo terrestre è abbastanza
accogliente. E precisamente, secondo le misure di lunghezza astronomiche, il suo
raggio R e uguale a 27,522 delle distanze medie del Sole dalla Terra.
Dunque, il campo dei moti celesti è più lontano dalla Terra che dal Sole di
26,5 volte; cioè il suo confine si trova tra le orbite di Urano e Nettuno. Il
risultato è sorprendente giacchè conferma la concezione del mondo
tolemaico-dantesca persino quantitativamente e il confine dell’ universo si
trova precisamente nel punto in cui veniva considerato sin dalla remota
antichità. Il confine dell’ universo si trovava oltre Urano; le notizie a riguardo
erano ancora vaghe. Riflettiamo sul significato concreto di questo risultato.
Le caratteristiche dei corpi di un sistema in movimento, osservato, da un
sistema fisso, dipendono dal valore essenziale β = √(1 - ν2/c2)
dove v e la velocita del moto del sistema, mentre c e la
velocita della luce. Finche v e minore di c, s e reale e tutte
le caratteristiche rimangono immanenti all’ esperienza terrena; con v uguale
al c, s, = 0 e con v maggiore di c, s diventa immaginario.
Nei due ultimi casi si verifica un doppio salto qualitativo delle
caratteristiche corrispondenti. Cosi in un sistema in moto la lunghezza dei
corpi in direzione del movimento si riduce in rapporto di s:1, il tempo si
riduce in rapporto di 1: s, la massa si riduce in rapporto di 1: s e cosi
via.
Di conseguenza, al confine tra la Terra e il
Cielo, la lunghezza di qualunque corpo diventa uguale a zero, la massa diventa
infinita e il suo tempo, dal punto di vista osservabile, altrettanto infinito.
Cioè: il corpo perde la sua estensione, passa all’ eternità ed acquista
stabilità assoluta. Ma non è forse questa la versione, in termini fisici, delle
caratteristiche proprie alle idee di Platone: essenze incorporee, inestese,
immutabili ed eterne? Non si tratta, forse, delle forme pure aristoteliche?
Oppure si tratta dell’ esercito celeste, visibile
dalla Terra come stelle, estraneo alle proprietà terrene?
Cosi è sul confine con il s = 0. Ma oltre il
confine, con v > c, il tempo scorre in senso “inverso”,
cosicchè “l’effetto precede la causa”. Ossia qui la causalità efficiente si
muta, come esige l’ontologia aristotelica-dantesca, in causalità finale in
teleologia; e oltre il confine delle velocita massime si estende il regno dei
fini. In questo caso “lunghezza e massa dei corpi diventano immaginari”. Quando
non esiste una concreta interpretazione per gli immaginari, un tale risultato
sembra strano e proprio la mancanza di concretezza nella concezione degli
immaginari e la causa del fatto che si evitino le conclusioni dei ricercatori
della nuova meccanica qui esposte. Ma è tempo di sconfiggere due spauracchi
della mente: l’immaginario e la continuità; ed è quindi anche tempo di
sbarazzarsi dell’horror imaginarii e dell’horror disconuitatis!
Tenendo presente l’interpretazione degli
immaginari qui suggerita riusciremo a vedere in maniera oggettiva come,
congiungendosi allo zero, un corpo precipita attraverso la superficie avente le
coordinate corrispondenti è come si estrofizzi attraverso se stesso,
raggiungendo cosi caratteristiche immaginarie. Esprimendoci in maniera
figurata, ma se si avesse un’idea concreta dello spazio ci esprimeremmo in
maniera non figurata, si può dire che lo spazio s’infranga in presenza di
velocità superiori alla velocità della luce, allo stesso modo con cui l’aria
s’infrange se in essa si muovono corpi con velocità superiore a quella del
suono. Ed allora intervengono condizioni qualitativamente nuove d’esistenza
nello spazio, caratterizzate dai parametri degli immaginari. Ma come la
scomparsa della figura geometrica non significa affatto la sua distruzione, ma
solo il suo passaggio ad un altro lato della superficie e, di conseguenza, la
sua accessibilità agli esseri che si trovano da quel lato della superficie,
cosi anche l’immaginarietà dei parametri del corpo deve essere intesa non come
segno della sua irrealtà, ma solo come testimonianza di un suo passaggio ad
un’altra realtà. Il campo degli immaginari è reale, concepibile e nella
lingua di Dante si chiama “Empireo”. Tutto lo spazio potremmo immaginarcelo
come “doppio”, costituito dalle coordinate di Gauss reali e da quelle
immaginarie delle coincidenti con esse, ma il passaggio dalla superficie reale
a quella immaginaria è possibile solo attraverso l’infrangimento dello spazio e
“l’estrofia” del corpo attraverso se stesso. Per ora ci figuriamo nella
mente, come mezzo a questo processo, solo l’aumento delle velocità, forse delle
velocità di alcune particelle oltre la velocita c; ma non abbiamo le dimostrazioni
dell’ impossibilita di qualche altro mezzo.
Così squarciando il tempo, la Divina Commedia,
del tutto inaspettatamente, si rivela non già indietro, bensi “avanti” rispetto
alla nostra scienza contemporanea.
Fonte: tratto da “Gli immaginari in
geometria. Estensione del dominio dei modelli geometrici bidimensionali.
Esperienza di una nuova interpretazione degli immaginari”.(P.Florenskij)