Al
campeggio di Ommen, in Olanda, nel 1929 Krishnamurti sciolse l’Ordine
della Stella, dichiarando in pari tempo senza attenuazioni il suo credo.
Ecco alcune delle sue parole :
“Io non ho che uno scopo: liberare
l’uomo, aiutarlo a spezzare le barriere che lo limitano, perché soltanto
questo gli darà la felicità eterna, la consapevolezza incondizionata e
l’espressione del suo Io. Dal momento in cui voi seguite qualcuno,
cessate di seguire la Verità. Voi siete abituati all’autorità o
all’atmosfera dell’autorità. Voi credete, voi sperate che altri, a mezzo
di altri poteri straordinari - un miracolo - vi trasporti nella regione
della libertà eterna. Voi volete degli Dei vostri: nuovi Dei al posto
degli antichi, nuove religioni al posto delle antiche - tutte egualmente
senza valore, tutte barriere, limitazioni, stampelle. Da diciotto anni
avete preparato nel mondo la mia venuta. E quando io vengo a dirvi che
bisogna buttar via tutto ciò e cercare da voi stessi l’illuminazione, la
gloria, la purita e l’incorruttibilita dell’lo, nemmeno uno di voi
accetta di farlo. Perché dunque avere una organizzazione? lo sostengo
che la Verita è una landa selvaggia e che non è possibile arrivarvi per
alcuna via tracciata, sia essa una religione o una setta. Ma coloro che
veramente desiderano di comprendere, che si sforzeranno di trovare cio
che è eterno, senza principio né fine, costoro marceranno insieme con
più ardore e saranno un pericolo per tutto ciò che non è essenziale, per
le irrealtà, per gli spettri”.
(..) Bisogna rilevare due punti.
ll primo
è che, malgrado tutto, dopo quelle dichiarazioni di Krishnamurti le
cose poco sono cambiate; come prima vi sono stati convegni e raduni in
grande stile di entusiasti, che lo hanno avuto per centro; é stata
creata una “Fondazione Krishnamurti” che si propone anche di acquistare
un fondo in Inghilterra onde costituirvi, secondo il desiderio dello
stesso Krishnamurti, un centro per la diffusione delle sue idee; sono
usciti libri con titoli come Krishnamurti, I’istruttore del mondo (di L. Renault), Krishnamurti, Io specchio degli uomini (di Y. Achard), Krishnamurti, psicologo dell’ era nuova
(di R. Linssen) e via dicendo. Cosi il “mito” si è ricostituito,
Krishnamurti ha continuato a fare da “Maestro” in quanto annunciatore di
una nuova visione delle vita. Si è preteso che ciò non e esatto perché
il nuovo Krishnamurti non pretende di sostituirsi al singolo ma vuole
incitarlo a prendere in modo autonomo una coscienza più profonda di sé,
presentandosi solo come un esempio e agendo solo come un “catalizzatore
spirituale” su coloro che vanno ad ascoltarlo. Ora, qualcosa del genere
lo si può concepire nel caso di centri ristretti e raccolti, come
alcuni Ashram indù e alcuni gruppi iniziatici nei quali una personalità
superiore può effettivamente creare un’atmosfera quasi magnetica, senza
predicare. E invece difficile concepirlo quando ci si mette a fare
conferenze in ogni parte del mondo profano e per un vasto pubblico,
perfino in teatri e università, per ultimo essendosi aggiunto
l’interesse snobistico di un pubblico fra l’intellettuale e il mondano.
ll meno che si può dire, è che Krishnamurti si é prestato a tutto ciò,
assolvendo il solito ruolo da “Maestro” anche se è colui che proclama
che non bisogna cercare un Maestro.
ll
secondo punto da rilevare è che Krishnamurti malgrado tutto espone un
insegnamento, una dottrina, la quale dagli inizi fino ad oggi e restata
più o meno la stessa, e che é caratterizzata da ambiguità assai
pericolose. Liberare la Vita dall’Io - questo è in fondo ciò che
Krishnamurti annuncia. Verità, per lui significa Vita; e Vita significa
poi Felicità, Purezza, Eternità e varie altre cose ancora, date quasi
come sinonimi. Inoltre sono quasi sinonimi liberare la Vita e liberare
l’Io, perché Krishnamurti in fondo insiste sulla distinzione fra un
falso Io personale e un lo eterno, il quale poi fa tutt’uno con la Vita
e, in essa, col principio di ogni cosa. A questo Io, cioé alla Vita,
l’uomo ha imposto ogni sorta di limitazioni: credenze, preferenze,
abitudini ataviche del cuore e della mente, attaccamenti, convenzioni,
scrupoli religiosi, timori, preconcetti, teorie, vincoli ed esclusivismi
d’ogni genere. Tutte barriere da far saltare per ritrovare sé stessi,
per realizzare ciò che Krishnamurti chiama l’ “unicità individuale” . Ma
questo “sè stesso”, dato che poi si equivale all’ “Io di tutto,
all’unita assoluta con tutte le cose, alla fine del senso di
separazione” , si distingue molto da qualcosa come l’élan vital
bergsoniano e come l’oggetto delle nuovissime, più o meno panteistiche o
naturalistiche religioni dell’irrazionale e del divenire? Con quale
diritto chiamarlo “Io”? E ciò che propriamente si può chiamare Io in
Krishnamurti in fondo non è forse solo un principio negativo, una
sovrastruttura che, creata da pregiudizi, paure e convenzioni, soffoca
ciò che soltanto sarebbe reale, la Vita: esattamente come nella
psicanalisi e nell’irrazionalismo?
Krishnamurti
non dice nulla per farci capire che senso ha il suo parlare di un “sé
stessi”, di una “unicità individuale” là dove la perfezione e la meta
sono concepite come mera vita indifferenziata, proteiforme, simile,
secondo le sue stesse parole , ad acqua corrente che procede sempre e
mai e tranquilla, a fiamma priva di forme definita, labile, mutevole di
momento in momento e quindi indescrivibile, non circoscrivibile da
nulla, indomabile. Dare alla vita, su questa base, l’attributo di
felicità, di gioia libera ed estatica quando ogni contrasto è superato,
quando nessun limite, nessuna diga la raffrena più, si che essa può
manifestarsi ed espandersi senza sforzo come pura spontaneità, é ancora
possibile. Non lo è più parlare in pari tempo di incorruttibilità, di
eternità, di liberazione vera dalla legge del tempo. Non si può volere
simultaneamente ciò che diviene e ciò che é, ciò che perennemente muta e
ciò che è eterno e invariabile. Da sempre, ogni insegnamento
sapienziale ha additato due regioni, due stati: mondo e sovramondo, vita
e supervita, fluenza e fuga delle forme (samsara) e permanenza del
centro. Krishnamurti mescola le due cose in uno strano impasto, in una
specie di traduzione dell’insegnamento indù atma = brahman in termini di
irrazionalismo diveniristico occidentale. E dire che, se questa era la
sua più profonda esigenza, in una delle tradizioni del suo paese, nel
Mahayana, avrebbe potuto trovare quanto occorre appunto per presentire
in che senso può effettivamente esistere qualcosa di superiore a quella
opposizione.
Krishnamurti
ha ragione nel dire che l’uomo deve abolire la distanza fra sé e la
meta, divenendo egli stesso meta, non lasciandosi più sfuggire come
un’ombra situata fra passato e futuro ciò che solo è reale e in cui solo
può possedersi e risvegliarsi: il momento presente, il momento da cui
mai si esce. Questa potrebbe anzi essere una salutare reazione contro la
già accusata illusione evoluzionistica, la quale respinge in un tempo a
venire quel compimento, che invero solo superstoricamente, al di là del
tempo, può essere raggiunto. Ma non potrebbe anche essere la riduzione
estatica alla mera istantaneità, l’ebrezza di un identificarsi che
distrugge ogni distinzione e ogni sostanzialità spirituale? Esprimere il
principio di non dipender da nulla fuor che da sé, non é dire a
sufficienza. Bisogna spiegare in quale rapporto si sta con questo “sé”;
bisogna stabilire se rispetto a sé si e capaci di dominio e di
consapevole, libera direzione, ovvero se si e incapaci di esser diversi
da quel che momento per momento, secondo spontaneità pura, la “vita
liberata” vuole, attua e crea in noi eleggendo tale stato perfino come
ideale. Se poi ci si riferisce al compito di darsi una forma e una legge
in un essere personale, può anzi accadere che su un certo piano sia il
limite a testimoniare la liberta. Krishnamurti parla, é vero, del caso
di quella rivolta che é illusoria, perché esprime una celata
autoindulgenza e insofferenza. Egli dice che per comprender ciò che egli
intende per liberta della vita occorre prefiggersi quella meta, che è
liberazione persino dalla vita. Rileva che, se la vera perfezione non ha
leggi, ciò non deve esser interpretato come stato di caos, ma come
superiorità sia alla legge che al caos, come convergenza verso il germe
di tutto, da cui sorge ogni trasformazione e dipendono tutte le cose.
Infine, egli afferma che dobbiamo creare un miracolo d’ordine in questo
secolo di disordine e di superstizione, però sulla base di un ordine
interiore nostro e non su quella di una autorità, di un timore o di una
tradizione. Ma questi accenni, che di massima potrebbero indicare una
direzione spirituale giusta, sono poco convincenti dato lo spirito
dell’insieme e non sono confortati da nessuna indicazione concreta di
metodo e di disciplina perché, come si e visto, Krishnamurti è contrario
ad ogni via prestabilita: pensa che non esistano sentieri per la
realizzazione della verità, cioè della vita; che un desiderio è una
aspirazione alla felicità cosi intensa da eliminare ad uno ad uno ogni
oggetto particolare, un amore sconfinato disindividuale, non per una
vita, ma per Ia vita, non per un dato essere, ma per qualsiasi essere,
bastino per condurre alla meta.
Oltre a
ciò, come via viene solo indicata la sospensione degli automatismi
dell’lo e dei suoi contenuti, l’arresto del flusso mentale in una specie
di “soluzione di continuità” spirituale. Quando non vi sono più
barriere, quando in noi non vi e più nulla che sia determinato dal
passato e dal già conosciuto, nulla che tenda verso qualcosa - in questo
momento potrebbe aversi la conoscenza del vero Sè, l’apparizione di ciò
che Krishnamurti talvolta chiama misticamente “lo Sconosciuto”, come un
fatto spontaneo e con un carattere improvviso, non come il “risultato”
di una disciplina, di un metodo e di una iniziativa dell’lo, perché
sarebbe assurdo che lo stesso lo possa “sospendere” e “uccidere” sé
stesso; ogni suo sforzo tornerebbe a chiuderlo in sè. Dopo questo
risveglio ipotetico l’Io sparisce, non e più Io, “diviene la Vita”. Tali
vedute sembrerebbero presentare analogie, oltre che col cosiddetto
quietismo cristiano (dove però il concetto di grazia ha una parte
essenziale), con quelle del taoismo e di una delle due scuole principali
dello Zen, che pero Krishnamurti sembra conoscere assai poco, dato che
in una dichiarazione recente egli ha incluso lo stesso Zen (insieme
all’induismo, al metodo cristiano e a “tutti i sistemi”) fra le
“frottole”, ripetendo che una mente che si esercita in base ad un
qualunque sistema o metodo “è incapace di comprendere ciò che è vero».
Di fatto, le accennate analogie sono relative, il taoismo e lo Zen hanno
un sottofondo e implicazioni storico-esistenziali assai diverse. Forse
bisogna tener conto però dell’eccesso, in parte spiegabile, di una
reazione contro il farraginoso edificio teosofistico e il relativo
bagaglio di credenze, di “iniziazioni”, di “esercizi”, di piani, di
“corpi” e via dicendo.
Riguardo
alle confusioni dianzi indicate, e anche possibile che le parole
tradiscano il pensiero di Krishnamurti e che il carattere stesso della
sua esperienza personale unitamente alla mancanza di una salda
preparazione dottrinale abbiano impedito formulazioni più adeguate. Però
le confusioni espressive potrebbero anche riflettere l’ambiguità della
sua stessa esperienza, col risultato che nessun vero orientamento viene
dato. In genere, come caratteristiche restano, in Krishnamurti, il
rifiuto assoluto e indiscriminate di ogni autorità (il che potrebbe
venire perfino spiegato psicanaliticamente, Krishnamurti nella sua
famiglia avendo avuto a subire un ottuso despotismo paterno), la
negazione di ogni tradizione - quindi un individualismo e un anarchismo
nel campo spirituale, ma anche, nel contempo, una specie di accanimento
contro tutto ciò che è “lo”; egli mette la costruzione dell’lo, di
“quella illusione che e l’lo”, sul piano stesso del “peccato originale”
di cui parlano i cristiani. Ora, su questo punto bisogna intendersi. Il
riferimento giusto potrebbe essere dato dalla massima iniziatica: “Chiediti se sei tu ad avere l’lo o se e l’Io ad avere te”.
Indubbiamente di un certo Io bisogna pur liberarsi; la via remotionis,
la distruzione dell’ “uomo antico” (che poi, da un altro punto di
vista, non è che l’ “uomo nuovo”, quello più recente) è una condizione
che e stata sempre riconosciuta, per la reintegrazione spirituale. Ma in
pari tempo bisogna sottolineare una fondamentale continuità e non
insistere su rigide contrapposizioni. Acconcio sarebbe rifarsi al
simbolismo dell’ermetismo alchemico il quale considera bensì un lavacro
in un’ “acqua di Vita” che distrugge e dissolve, avvertendo pero che le
sostanze a cui si può far subire tale bagno debbono contenere un grano
d’oro indistruttibile (il simbolo dell’Oro si riferisce al principio lo)
destinato a riaffermarsi su ciò che l’ha dissolto e a riemergere in una
superiore sua potenza; senza di che, non si consegue la perfezione
della “Grande Opera” e ci si arresta alla cosiddetta fase dell’albedo
che sta sotto il segno della donna, anzi del dominio nel femminile sul
maschile. Questo schema e assai più orientatore e mette a punto quel che
è frammisto con le ambigue idee di Krishnamurti, nell’ordine delle
quali la negazione dell’Io deriverebbe dal fatto che esso sarebbe un
fattore statico, “un pacchetto inerte” che si oppone a quel continuo
mutamento e a quella continua trasformazione che costituirebbero
l’essenza sempre nuova e incoercibile del Reale. Su di un piano più
contingente, Krishnamurti non avrebbe dovuto dimenticare una massima
della tradizione della sua stessa terra, che, insieme ad ogni altra,
egli vuol buttare in mare; “Che il saggio con la sua sapienza non turbi la mente di coloro che non sanno”.
Andare a proporre idee le quali sono Vere, se mai, al livello di un
Vero “liberato” a quei deviati che, come gli uomini moderni, di
incentivi al caos e alla mala anarchia ne hanno fin troppi, non è di
certo cosa saggia. Il fatto che spesso tradizioni spirituali e
sapienziali, simboli, strutture rituali e ascetiche non siano più che
forme vuote sopravviventi, non dovrebbe impedire di riconoscere la
funzione positiva che esse possono avere avuto e che sempre possono
avere nel quadro di una civiltà più normale e con riferimento ai pochi
che sanno ancora capire, solo per i quali vale parlare e che possono
anche concepire una autorità la quale non sia per nulla principio di
repressione né di alienazione. Può far saltare le sovrastrutture, gli
appoggi e i vincoli (spesso destinati solo a sorreggere) chi già sente
di potersi tenere in piedi, Krishnamurti sembra non preoccuparsi di
questo: incita democraticamente ognuno alla grande rivolta, non quei
pochi pei quali soltanto essa può riuscire salutare e veramente
liberatrice. E’ abbastanza significativo il fatto che dopo il 1968 si e
potuta rilevare una particolare ricettività delle idee di Krishnamurti
in ambienti di quegli studenti di molte grandi università che sono
passati alla “contestazione”, al rifiuto di tutti i sistemi e i valori
tradizionali, in nome di una “libera esplicazione del proprio essere”.
D’altra parte era stato notato anche il fenomeno del cosiddetto mystic
beat e del beat attratto dallo Zen per via degli aspetti irrazionali e
di negazione quasi nichilistica e iconoclasta che questa dottrina
iniziatica presenta. Ciò conferma il senso preoccupante e distorto in
cui possono agire, oggi, alcune idee quando non si capisce il piano che
condiziona ogni loro legittima formulazione. Questo accenno a certi
ambienti di giovani occidentali che recentemente sono stati attratti
anche dalle idee di
Krishnamurti
ci pone altresì a rilevare un fenomeno più generale che, se non rientra
nel campo dello “spiritualismo”, pure sta egualmente sulla linea delle
aperture “estatiche” di cui si è detto, del resto da noi rilevato anche
in fenomeni di esaltazione collettiva. Nella forma più perspicua, si
tratta dell’orientamento appunto degli ambienti beat e hippy del periodo
ultimo, nei quali l’impulso alla evasione spinge verso aperture
ottenute con tecniche varie di una estasi caotica ma talvolta anche
selvaggia. Qui l’uso delle droghe - dell’LSD, della maijuana e dello
stesso hascisc - si associa a quello di uno jazz che riprende ed
esaspera ritmi ossessivi analoghi a quelli delle cerimonie evocatorie e
estatiche dei negri, aggiungendovisi talvolta gli spettacoli
“psichedelici” e danze che, di nuovo, ricordano quelle impiegate dai
selvaggi come strumenti estatici. Del resto, la frammistione di negri in
questi ambienti è significativa; inoltre, nello jazz e nel bop gli
esecutori o improvvisatori più quotati e che più suscitano un entusiasmo
frenetico spesso sono anche dei drogati e nei raduni, nei quali
convengono migliaia di giovani dei due sessi, non di rado spinti anche
quasi compulsivamente ad accoppiamenti sessuali, si stabilisce una
atmosfera di invasamento collettivo, la quale agisce nei singoli come
una "liberazione".
A noi
qui interessa considerare tutto ciò dal punto di vista particolare di
possibili involontarie evocazioni di forze “infere”, come negli altri
casi. In effetti, riguardo ai fenomeni di gruppo si sarebbe portati a
vedere una analogia con la macumba e il cadombé, cerimonie che si sono
continuate soprattutto nel Brasile e che mirano coscientemente a
provocare fenomeni di invasamento. Ciò che si deve mettere in rilievo é
appunto che nel bear, nell’hippy e in ogni altro che segua quei rituali
profani, il tutto può non ridursi alla semplice liberazione estatica o
frenetica di un sottosuolo psichico; l’inserimento in lui anche di forze
estraindividuali “infere”, alle quali per queste stesse vie e stata
aperta una porta, è senz’altro possibile.
Certe
azioni criminali e assurde compiute in margine a quel mondo dovrebbero
spiegarsi riferendosi ad esse, più che poter essere attribuite
all’individuo e alle sole influenze di una ideologia che nega ogni
concetto di colpa conducendo verso il piano di una vita davvero
“liberata”.
Fonte: tratto da "Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo", J.Evola (Ed.Mediterranee)