L'idolatria del tradizionalismo

L'idolatria del tradizionalismo ha stancato.

Autori come Guénon ed Evola vengono celebrati da certi ambienti con una devozione che rasenta il culto della personalità. Conferenze settimanali da settant'anni sul loro pensiero, esegesi infinite dei loro testi, pubblicazioni di libri sulla loro vita, citazioni trattate come verità rivelate. 

Pensatori trasformati in guru infallibili, la loro opera è diventata scrittura sacra, il dissenso verso alcune posizioni è eresia.

Quale è il senso di trasformare Guénon o Evola in "santini"?
La Tradizione di cui essi parlavano non si fonda mai sull'autorità personale ma sulla trasmissione impersonale di principi universali. La Tradizione non ha volto, non ha nome. 
Entrambi gli autori criticavano l'individualismo moderno e l'autorità basata sulla persona piuttosto che sul principio. Eppure i loro seguaci fanno esattamente questo: trasformano René Guénon e Julius Evola – individui storici, personalità specifiche – in autorità ultime. Sostituiscono la domanda "questo principio è vero?", con "cosa disse Guénon/Evola al riguardo?".

È cruciale distinguere due livelli nel pensiero di questi autori: la Tradizione come sistema di principi metafisici universali e le loro interpretazioni contingenti degli eventi storici.
Quando Guénon parla della dottrina dei cicli cosmici, della distinzione tra exoterico ed esoterico, o dei simboli universali presenti in tutte le civiltà, si muove – almeno in teoria – sul piano dei principi atemporali. Qui siamo oltre il contesto storico.
Ma quando Evola interpreta ad esempio il fascismo non sta enunciando un principio metafisico – sta facendo un'analisi politica contingente. Quando Guénon liquida l'intera scienza moderna come "sapere quantitativo" privo di valore, non sta applicando un principio universale – sta facendo una valutazione filosofica specifica che non tiene conto degli sviluppi successivi.
Il problema è che i loro epigoni trattano anche le interpretazioni storiche come se fossero principi universali.

Parliamo di uomini del loro tempo, con i loro limiti, le loro contraddizioni, i loro errori di valutazione. Non di oracoli infallibili. Consideriamo che Evola scriveva nell'epoca delle prime automobili e della radio; cosa avrebbe detto di internet, dell'intelligenza artificiale, delle biotecnologie? I loro schemi interpretativi, per quanto sofisticati e di ampio respiro, restano ancorati a un mondo pre-digitale. 
Questo immobilismo interpretativo impedisce di affrontare le sfide reali del presente.

La mummificazione del pensiero tradizionalista in "studi guénoniani" ed "evoliani"– con tanto di convegni, riviste specializzate, ortodossie interpretative – rappresenta esattamente quella "solidificazione" che Guénon stesso identificava come segno della decadenza ciclica.

Pensatori come Guénon ed Evola bisogna leggerli ma anche integrarli, superarli. Essi non sono l'ultima parola su nulla. Una lettura matura riconosce i loro contributi senza cadere nell'agiografia.
Vi è la necessità di fare ciò che loro stessi fecero ai tempi, ovvero pensare radicalmente il proprio tempo, non ripetere stancamente le diagnosi di un'epoca passata.

Sedati

 "Italia: negli ultimi dieci anni triplicate le prescrizioni di psicofarmaci ai ragazzi"

Secondo qualcuno triplicare le prescrizioni di psicofarmaci ai minori in un decennio sarebbe un progresso diagnostico. Invece è esattamente il contrario, è il sintomo di una società gravemente malata, scientista, che ha smesso di interrogarsi.

Il bambino irrequieto, quello malinconico, quello che non si adatta, per costoro sono solo soggetti da sedare.

Questi ormai sono fuori controllo, somministrano serotonina a chi vive in una società che ha desertificato le relazioni.

Prescrivono stimolanti a chi cresce in ambienti diseducativi, iperstimolanti e frantumati. Tranquillizzano l'angoscia senza mai nominare ciò che la genera: la solitudine strutturale, la competizione feroce fin dall'infanzia, l'assenza di futuro pensabile. Il farmaco è oggi il linguaggio con cui si fugge, si evita di ascoltare. D'altronde è più semplice "normalizzare" un bambino che mettere in discussione la scuola, la famiglia e l'organizzazione sociale. La pillola non disturba nessuno: né i genitori esausti, né gli insegnanti oberati, né un sistema economico che ha bisogno di individui funzionali, non di persone intere.

Ma sappiate che l'infanzia è resistenza ontologica. Il disagio del bambino è spesso l'unica protesta sana in un contesto malato. Sedarlo significa eliminare il testimone.

È più comodo credere a uno squilibrio di neurotrasmettitori che ammettere il fallimento antropologico. La psichiatria è diventata l'alibi perfetto: medicalizza il sintomo, assolve la causa. Il risultato? Una generazione cresciuta nell'idea che il proprio disagio sia un difetto di fabbrica, non una risposta intelligente a un mondo deviato.