Palestre moderne

Le palestre moderne, con i loro specchi infiniti e le luci calcolate, sono diventate il tempio di un culto silenzioso.

Premettiamo, il movimento è vita, l'attività fisica è medicina per il corpo e balsamo per la mente. Il punto non è questo.

C'è qualcosa di profondamente diverso tra chi corre per sentirsi vivo e chi solleva pesi per sentirsi visto. Tra chi si muove per abitare il proprio corpo e chi lo scolpisce come un'opera d'arte destinata allo sguardo altrui.

La palestra “narcisistica”, chiamiamola così per intenderci, quella frequentata non per salute ma per apparenza, è un luogo pieno di gente ma che puzza di solitudine. Vi abitano tanti soggetti impegnati in un dialogo ossessivo con la propria immagine riflessa.

Quando il corpo diventa puramente estetico, quando ogni muscolo è calcolato per l'effetto visivo e non per la funzione, non si sta coltivando salute, si sta costruendo un simulacro. Il corpo è uno strumento per abitare il mondo, non una statua da esporre. C'è qualcosa di tragicamente postmoderno in questa riduzione del corpo a superficie.

La palestra “narcisistica” è solo l'ennesima manifestazione della disperata fame di validazione esterna, i cui meccanismi sono ben visibili sui social network.

Lo sport vero insegna l'umiltà della sconfitta, la gioia della collaborazione, il rispetto per l'avversario che ti spinge oltre i tuoi limiti. Ti mette di fronte alla tua fragilità e alla possibilità di superarla non per apparire, ma per diventare. Nel basket ad esempio si impara che il corpo serve a passare, saltare, coordinarsi con altri corpi. Nell'arrampicata si scopre che i muscoli non esistono per essere belli ma per portarti più in alto. Nella danza si capisce che la forma segue il movimento, non il contrario. E così via con gli altri sport.

Ribadiamo che non stiamo demonizzando la palestra in sé, né negando che molti la frequentino con equilibrio e motivazioni sane. Non si può però negare questo visibilissimo fenomeno che trasforma il corpo da mezzo a fine, da strumento di vita a oggetto di esibizione.




La moda del "riconoscere il narcisista"

 " Come riconoscere il narcisista", "Come proteggersi dal narcisista", "Fuggire dal narcisista".

Ecco l’ultima moda. Improvvisamente ci si è accorti di essere circondati da una specie umana distinta e pericolosa, da cui bisogna difendersi.

Il narcisismo patologico, che teoricamente nella psicologia clinica è un disturbo preciso, con caratteristiche definite, è oggi diventato un’etichetta universale, applicabile praticamente a chiunque non corrisponde alle proprie aspettative relazionali.

Ogni comportamento problematico viene ridotto a questa etichetta. Complessità umana, sfumature, contesti? Macché, c’è solo l’etichetta di “narciso”.

D’altronde così tutto diventa rassicurante, “Non è colpa mia, è un narcisista!" – questa frase libera da responsabilità, semplifica il dolore, offre una narrazione chiara.

Diffidare sempre dalle narrazioni nette. Le relazioni falliscono per mille ragioni, le persone feriscono e vengono ferite in dinamiche complesse dove raramente esiste un colpevole assoluto e una vittima perfetta.

Questo sguardo sospettoso, alimentato da “influencer” di ogni genere, avvelena le relazioni prima ancora che possano svilupparsi. Crea barriere preventive, muri eretti per proteggersi dalle famose relazioni “tossiche” (altro termine abusato), rendendosi incapaci di relazioni autentiche.

“I narcisisti non cambiano mai", "non hanno empatia", "sono irrecuperabili", affermazioni ripetute come mantra che negano qualcosa di fondamentale dell'esistenza umana: la possibilità del cambiamento.

Non che sia semplice modificare strutture psichiche profonde, ma negare a priori ogni possibilità di evoluzione, crescita, guarigione, significa condannare eternamente il prossimo. È un modo di pensare che nega la storia personale, il fatto che siamo tutti, in qualche misura, figli del nostro passato, ma non necessariamente suoi prigionieri per sempre.

Queste narrazioni spesso vengono alimentate da chi è avvelenato/a con l’altro sesso, vi è tutta una narrazione di guerra tra uomini e donne. Nella complessità delle relazioni umane l'altro genere oggi diventa il nemico da temere, studiare, evitare. E così, nell’illusione di proteggersi si costruiscono muri, incomprensioni e nuove solitudini. Qualcuno dall’alto ne sarà felice.

Il nostro umile consiglio è di rimanere aperti verso la complessità. Tra quella che chiamano “patologia clinica” e la “normalità” esiste uno spettro infinito di sfumature. Le relazioni sono difficili, richiedono lavoro, comprensione, pazienza. Falliscono per ragioni complesse, raramente riducibili a etichette rassicuranti di questo genere.

Invece di nascondersi e autogiustificarsi dietro patetici schemi, si sviluppi la capacità di vedere le persone nella loro complessità, di riconoscere i comportamenti problematici senza ridurre tutti a etichette erigendo muri invalicabili.