Lo sguardo domestico

Osservare con sguardo "domestico" il proprio marito, la propria moglie, il proprio fratello, la propria sorella, i propri figli, crea alienazione. 

La famiglia, quando non è sana, diventa una prigione di etichette cristallizzate. Una volta assegnato un ruolo - il figlio "irresponsabile", la figlia "brava", il fratello "problematico" - diventa quasi impossibile liberarsene. I familiari diventano guardiani inconsapevoli di questa prigione identitaria, perpetuando dinamiche che negano la crescita, l'evoluzione e la trasformazione della persona. Perpetuare la quotidianità in questi contesti, magari per impedimenti economici o sociali, significa sentirsi negati nella propria essenza, ridotti a una caricatura di se stessi. Mentre fuori dal contesto familiare le persone chiedono loro consigli, li rispettano, riconoscono il loro valore, a casa vengono sistematicamente sottovalutati. Essere una persona stimata all'esterno e un fantasma nella propria casa è un fenomeno diffusissimo, che tocca trasversalmente ogni classe sociale e culturale. 

La vicinanza genetica e la condivisione prolungata di spazi e tempi creano una presunzione di conoscenza che blocca la vera comprensione. Alcuni familiari rimangono intrappolati nelle lenti del passato e non riescono a vedere oltre, cristallizzando l'immagine dell'altro in una versione anacronistica e limitante. Questo meccanismo si autoalimenta: più una persona cerca di dimostrare il proprio cambiamento all'interno della famiglia, più viene ricondotta ai vecchi schemi interpretativi. È come se esistesse una resistenza sistemica al riconoscimento dell'evoluzione individuale, una sorta di omeostasi relazionale disfunzionale.

Sono una minoranza le famiglie dove tali dinamiche non si verificano, sono quelle in cui regna una curiosità autentica verso l'altro.

In tanti si ritrovano in queste alienanti situazioni. Non serve la frustrazione, la soluzione migliore è quella di smettere di cercare validazione dove non può essere trovata. Se in famiglia vige questa stagnazione percettiva, è necessario cercare tra gli "estranei" chi sa vedere davvero chi siamo, senza l'utilizzo di lenti statiche e distorte dal peso della storia condivisa. 

La famiglia che non sa riconoscere il valore autentico di chi le appartiene non merita il potere di definirne l'identità. 


Invidia

L'invidia è un sentimento corrosivo che si annida spesso, non tanto negli sconosciuti ma dietro il sorriso dell'amico, di un familiare. É la gioia altrui che diventa veleno in corpo, che trasforma il successo del fratello in una sconfitta personale.

 Attenzione non è un fenomeno raro, è onnipresente. Sant'Agostino scriveva che l'invidia nasce da una perversione dell'amore stesso, dove si dovrebbe gioire per il bene dell'altro, si prova amarezza; ci si ritrova a mormorare nell'ombra. Non vi è una capacità di sentire i suoi traguardi come felicità condivisa, egli diventa un rivale segreto.

Aristotele notava come l'invidioso soffra non tanto per ciò che gli manca, quanto per ciò che l'altro possiede. È una forma peculiare di cecità spirituale che impedisce di vedere l'unicità della propria esistenza, perché troppo impegnati a misurare la distanza che la separa da quella degli altri.

In pochi sono immuni da questo veleno, chi più chi meno. Anche chi dice di non esserlo, spesso cova tali sentimenti all'interno di sé e neppure se ne rende conto.

Chi ha creato i social network lo sa bene, difatti tutto questo sbandieramento di vite "felici" (che in realtà non lo sono) non è altro che materiale per l'ingranaggio dell'invidia. Questa fragilità umana va osservata, accettata e combattuta. Riconoscere che anche nei rapporti più cari può annidarsi l'ombra dell'invidia è onestà e saggezza. Non esiste l'assenza di tentazioni, ma vittoria quotidiana su di esse.

Si guarisce da tale sentimento con la consapevolezza della propria unicità, riconoscendo la propria vita come dono irripetibile e non come una gara da vincere.

Affermare di non essere invidiosi non basta, bisogna osservarsi attentamente. Contro l'invidia che divide, solo una presa di coscienza dei meccanismi umani può prevalere.